Il Roadburn…un’esperienza più unica che rara. Non si
tratta solo di musica, ma di quello che sullo stesso sito ufficiale viene
definita la Roadburn Experience! Persone differenti provenienti da 40 paesi
diversi hanno condiviso per 4 giorni 4 palchi, in una pacifica ed armoniosa
convivenza, condividendo all’insegna della musica ognuno la propria passione.
Se i toni vi sembrano romantici sappiate che state leggendo il report di chi ha
vissuto per la prima volta questo evento, perciò vedrete i 3 giorni di festival
raccontati attraverso l’emozione di occhi vergini.
Come anticipato i nostri giorni sono stati il giovedì, il
venerdì e il sabato e speriamo di offrirvi una pluralità di pareri, senza
ripetizioni, che integrati con i report di altri possano dare un’ottima visione
di insieme di cosa sia stata l’edizione 2012.
Giovedì 12
Il primo giorno è stato forse quello meno pregno, almeno
per noi: vuoi la stanchezza, vuoi la massiccia concentrazione di gruppi black –
non troppo in linea con i Doommaggusti – ma di sicuro il giovedì ha svolto la
sua funzione di warm-up, preparandoci al clima del festival senza sfinirci.
The Icarus Line aprono questa giornata nella Green
Room con la loro particolarità. Il sound infatti è decisamente ‘70s, ritmato, si
fa seguire e stupisce la presenza del cantante: un ragazzo magrissimo, quasi
esile, che entra con jeans e giacchetta sopra al petto nudo, dandoci
inizialmente l’idea di un novello Richard Ashcroft. Ma è vedendolo muoversi,
cantare e atteggiarsi che capiamo meglio qual è il suo beniamino: Iggy Pop.
Immaginatevi, dunque, quel cantato quasi parlato sopra a dei riff dal gusto
blues…gustoso!
d.USK / diSEMBOWLMENT è il gruppo che siamo andati a
sbirciare nel Main Stage subito dopo, ma l’impronta decisamente black del
gruppo ci ha spinti verso lidi differenti – ovvero i banchetti del merchandise!
I Virus si sono esibiti nella nuova venue, l’Het
Patronaat una sede davvero suggestiva, che offre un approccio decisamente
diverso al live. Come vi avevamo anticipato, si tratta di una chiesa
sconsacrata, che già da fuori sprizza gotico da tutti i pori, con le sue guglie
a punta scure che si stagliano contro il cielo nuovoloso della Tilburg
primaverile. L’interno, poi, è unico, con il piano terreno ampio con catering e
merch, mentre al piano superiore un pavimento di semplici travi di legno
sostiene un palco allestito sotto la punta della guglia, alla luce delle vetrate
che riproducono i santi e di fronte a un enorme dipinto delle tre grazie. Certo,
l’acustica forse non era delle più azzeccate per le distorsioni, ma di sicuro
si difendeva bene, anche sotto l’effetto estraniante dato dalla mancanza del
solito buio alimentato dalle luci artificiali e sostituito dalla naturale luce
del giorno. I Virus, dicevamo, sono un altro esempio di commistioni
interessanti, con quell’attitudine un po’ prog unita allo stoner (che lascia
pensare ai Fatso Jetson), quella lieve impronta noise che arricchisce, coronata
da un cantato alla Ian Curtis.