martedì 24 aprile 2012

ROADBURN 2012 – Live Report Day 3

Sabato 14

Ovvero la giornata definitiva!
Mai potevano dei cuori così candidi sperare nell’assistere a così tante esibizioni eccezionali tutte nello stesso giorno!

Il pomeriggio comincia con dei toni soft, grazie all’acoustic solo project di Mike Scheidt. Un set davvero intimo, sensazione data anche dalla scelta del palco, lo Stage 01, oltre che intimista (come ogni progetto acustico che si rispetti). Mike seduto sulla propria sedia, totalmente solo sul palco, una chitarra acustica, inizia effettandola, proponendo sonorità che ci fanno galleggiare, chiudere gli occhi e perderci. Unica pecca il fatto che per i primi – pochi – minuti la voce non si riuscisse a sentire. Rimediato questo inconveniente il set acustico riesce a prendere davvero la propria forma, con un lieve effetto alla voce e il suono della chitarra il più semplice e schietto possibile. Uno stile – musicale e vocale – che a tratti poteva ricordare le produzioni acustiche di Zakk Wylde e che, a parte qualche esploit finale denotante le abilità compositive di Scheidt, si è presentato nella maniera più classica in cui si possa concepire un set acustico. Ci aspettavamo forse un lume di particolarità in più forse dal frontman degli Yob, nonostante questo l’effetto è stato comunque assicurato. Il valore aggiunto è dato senza dubbio dalla persona di Mike Scheidt, sempre disponibile, alla mano e a portata di mano. Un artista vero.
Ci spostiamo nel Main Stage per assistere allo show dei 40 Watt Sun e troviamo qualcosa di decisamente molto interessante ma alla lunga troppo noioso, con le sue distorsioni cupe e pesanti, le sue ritmiche cadenzate dalle sonorità dilatate, create da accordi lunghi che si mischiano al post-rock. Il tutto viene, però, confezionato in una maniera più romantico/’90s grazie a questa voce smielosamente triste, dalle linee vocali (non la timbrica vocale) che vagheggiano Billy Corgan, coronato dal frame offerto, ovvero tre timidissimi esecutori dall’aria vagamente nerd. Troviamo che l’idea sia buona, ma che il risultato finale rischi di essere troppo pesante da digerire, nonostante la gradevole pesantezza delle distorsioni.
Anche con i successivi Dark Buddha Rising, esibitisi nella Green Room, riceviamo una sorpresa. Il nome infatti qui mi dava da pensare ad un gruppo orient-mystic-psych, e invece ci si para davanti questo individuo a torso nudo (il resto non lo so, perché non vedevo, ma non posso assicurare nulla) dipinto in volto come se indossasse una maschera bianca dai tratti neri. Un aspetto cattivissimo per una musica decisamente potente, un doom ripetitivo fino all’ossessione, oltrepassando la natura di mantra e arrivando al livello di malattia mentale, denotata dagli urli strazianti prodotti dallo screaming del cantante. Suggestivo davvero.

Torniamo a piazzarci nel Main Stage per non perderci il live dei contestatissimi Church of Misery, che nonostante tutto la sala del palco principale l’hanno riempita! Ha sempre un effetto molto esilarante vedere questo chitarrista dai biondi boccoli circondato totalmente da musicisti giapponesi! Al di là di questa parentesi la band offre né più né meno quello che ci si aspetta da loro, ovvero un divertentissimo stoner dal gusto prepotentemente ‘70s, in una esibizione che ha fatto concentrare l’attenzione sulla sfiga del bassista: ben 2 testate saltate nel ben mezzo del live e proprio ai primissimi pezzi! Faceva tenerezza la sua aria desolata…prontissimo lo staff del Roadburn si è mosso meglio dei garagisti di formula uno per effettuare il cambio in corsa, finché non è stata trovata la combinazione giusta tra una testa Orange e il Rick dalla tracolla più lunga del mondo! Novità dei giapponesi quest’anno è stata il nuovo cantante: decisamente più giovane del precedente ed evidentemente emozionato, era talmente protagonista del suo momento che non si è nemmeno girato a guardare il compagno in difficoltà. Si spera, inoltre, che si tolga il vizio di applaudire sul microfono, perché è una delle cose più disturbanti che esistano durante un live! Ha comunque retto bene il proprio ruolo, impreziosendo il live con un sintetizzatore usato poco, ma bene.
Restiamo nel Main Stage, mangiamo nel Main Stage, viviamo nel Main Stage!! E come andarsene quando i prossimi ad esibirsi sono i Pelican? E come farsi venire il benché minimo pentimento dopo aver assistito al live più stravolgente del Festival? Definitivi. È il primo aggettivo che ci è venuto in mente. Nemmeno un capellone nel gruppo, ma han dato la merda a centinaia di capelloni messi insieme. Non hanno smesso un minuto di dare di testa, e nonostante questo nemmeno una sbavatura, un’incertezza. E i suoni…le mie orecchie chiedevano i tappi, ma io le ho costrette a godersi appieno il muro sonoro creato da questo formidabile gruppo post-metal, il quale si è fatto accendere il microfono esclusivamente per ringraziare il pubblico. Raffinati su CD, un calcio (rotante) in faccia dal vivo. I maestri dello slide, i paladini della cavalcata. Fenomenali!



Li seguono The Obsessed, sempre nel Main Stage (sulle cui gradinate abbiamo ormai formato la conca delle chiappe alla Homer Simpson) con Wino che non si era nel frattempo tagliato la barbetta da eremita, che lo rende un po’ meno “truce”, ma in fondo gli dona. Doom classico, stampo anni ’70 più che riconoscibile, un riposante live da sorriso sulle labbra, ma niente di più. Tante moine al microfono, sbrodolamenti di “thank you”, ma ciò che traspare è uno scazzo incredibile, che forse sarebbe potuto essere scambiato per imbarazzo, per quell’atteggiamento del “devo farlo, ormai son qui”. La consolazione è il pensiero del live successivo…



Un documentario sui viaggi spaziali (quelli veri) forse recuperato dalla National Geographic del 73 appare proiettato sul tendone che funge da sfondo alle esibizioni. Ebbene sì, per tutta la mezz’ora di cambio palco/soundcheck i nostri non hanno perso occasione di farci entrare in atmosfera.
Cominciano a entrare degli amplificatori…



Ne entrano poi altri…



Non si sa se ridere o se piangere all’immaginare cosa ci aspetterà sonoramente parlando in questo live!
Passa Matt Pike, già a petto nudo ancor prima di iniziare, accompagnato dalla sua pancia alcolica. Ma la perla di stile arriva quando volta le spalle al pubblico: per concederci di vedere in tutto il suo splendore il mega tatuaggio dipinto sulla sua schiena, Pike ha pensato bene di calarsi i jeans a metà culo. Bello il tatuaggio, bello anche lo spacco delle chiappe! Alla stazza raggiunta dal leggendario Al Cisneros non ci abituiamo, nonostante l’avessimo già visto con gli OM giovedì ed incrociato sulla via della stazione diretto presumibilmente alla Grass Company.



Ma passiamo al live, che anticipo che ha superato qualunque tipo di immaginazione o aspettativa, rivelandosi devastante. Si inizia prevedibilmente con Dopesmoker e già il livello di presabenismo è alle stelle. Il metro di giudizio è l’escursione raggiunta dai movimenti del collo di Cisneros, che come cavolo fa a muoverlo così lo sa solo lui. Il live è fatto per essere goduto, non per essere presentato al pubblico nella maniera in cui viene concepita classicamente. Le pause e le interruzioni sono frequenti e lunghe, i musicisti si perdono nella regolazione delle equalizzazioni. Cisneros si attempa parlando con un roadie, Pike scroccando da bere a qualcun altro dietro le quinte. Sembrava una mega sala prove. Godiamo ancora con Dragonaut, immancabile pezzo in una reunion degli Sleep. Da qui in poi la mega sala prove sembra virare nella direzione dell’improvvisazione (anche se non era evidentemente così) e i tre iniziano a produrre suoni, non più musica, ma suoni, vibrazioni, stati fisici che il THC deve aver amplificato sino al raggiungimento delle visioni mistiche. Ed è proprio di questo che Cisneros sente la necessità dopo un po’: si avvicina al microfono e, senza giri di parole, chiede un joint. Che si accende e si fuma sul palco nel pieno dell’ovazione generale. Un live ultraterreno, dai volumi assurdamente gonfi che il limite di dB italiano si sogna. Ci hanno sorpresi i ragazzi, a chiunque si aspettasse di sentire tutto il loro repertorio riprodotto per intero, non c’è stato nulla da fare. Loro erano Al Cisneros, Matt Pike e Jason Roeder, presi bene come nemmeno ci si aspettava, alternando momenti di perdizione assoluta all’interno dei propri suoni, ad altri in cui si raccoglievano con la batteria come punto di riferimento.
Alla fine, Roeder si alza, ringrazia ed esce. Cisneros e Pike appoggiano i propri strumenti alle spie, escono e lasciano che il feedback sciolga il cervello degli astanti.
Dopo aver assistito a qualcosa del genere, l’unica cosa che viene voglia di fare è rannicchiarsi in un angolo e ripensare a quanto si è appena visto.
Ma all’Het Patronaat suonano i Bongripper, e che fai, non vai nemmeno a sbirciare? È stata purtroppo solamente davvero una sbirciata, ma ne è valsa la pena, perché i ragazzi sanno il fatto loro, hanno suoni incredibili e sanno davvero cos’è lo stoner/doom senza fronzoli di sorta.

Tutto il resto è Kebab.







SLEEP - DOPESMOKER

 
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...