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TOP ALBUM
SUNN O))): Metta, Benevolence. BBC 6Music: Live on the invitation of Mary Anne Hobbs
Non v’è alcun mistero quando affermo che i Sunn O))) sono una delle mie band preferite. Dall’ormai lontano 2009, anno in cui uscì quel capolavoro di avanguardia rispondente al nome “Monoliths & Dimensions”, li seguo assiduamente, ogni mossa di Anderson e O’Malley è qualcosa che mi fa sempre rizzare le orecchie pretendendo tutta la mia attenzione. Quindi non vi nego la trepidazione nel poter finalmente ascoltare questo nuovo parto discografico, anche se di nuovo album non si può parlare, essendo a tutti gli effetti un live registrato all’epoca dei due album “life metal” e “pyroclasts”.
Metta, Benevolence è, appunto, una registrazione live negli studi della BBC sotto invito di Mary Anne Hobbs. Quello che però rende interessante il tutto è il vedere in scaletta titoli noti ma in vesti totalmente nuove: mentre i movimenti di Pyroclasts erano puri esercizi preparatori a quello che era l’album principale, qui assurgono a tracce ben distinte, ben strutturate, assolutamente lontane dalla noia, grazie all’apporto di molti musicisti, in primis la voce della Dea dell’oscurità Anna von Hausswolff. Tutto diventa meno dark, più sacrale, ieratico, dove organi, chitarre, voce, synth si rincorrono costantemente per trovarsi in territori di avanguardia che non sentivamo dai tempi del succitato capolavoro del 2009.
Ciò che rende però imperdibile questa uscita sono i 30 minuti della già conosciuta Troubled Air, contenuta in Life Metal, qui allungata, arricchita di fiati, ulteriori synth, arrivando ad una profondità espressiva forse raramente toccata dalla band: Ipnotica e suadente, Bellissima ed emozionante.
Metta, Benevolence, quindi, fa ben sperare sul futuro di una formazione che ogni volta sembra aver detto tutto, ma che costantemente ci stupisce ancora.
85/100
Lucio Leonardi
Top Track: Trouble Air
CONVERGE: Bloodmoon I
La luna di sangue si verifica quando la terra si trova fra il sole e la luna. Un eclissi totale che oscura il nostro satellite grazie al cono d’ombra che genera il nostro pianeta. Uno spettacolo immaginifico. Estremo. Dal fascino dark. Seducente, come la voce di Chelsea Wolfe, una donna che in fatto di oscura sensualità non è seconda a nessuno. Molti avranno storto il naso nell’ ascoltare Bloodmoon, considerando le derive estreme da cui provengono i Converge. Soprattuto in considerazione del fatto che molte band ultimamente hanno adottato questa formula più morbida, con voce femminile. Non tutti con risultati eccelsi. Vedi i Thou lo scorso anno con Emma Ruth Randle, lavoro altalenante che non ha raggiunto nemmeno lontanamente i fasti di Neurosis/Jarboe o Cult Of Luna/Julie Christmas. Tornando a Bloodmoon è presto detto che, nonostante i detrattori, ci troviamo dinanzi ad un lavoro magnetico, affascinante, completo, una sorta di gothic/dark saga dotata di un linguaggio epico dal retrogusto maligno. Basta ascoltare Viscera of Men per rendersi conto di ciò che vi sto dicendo. L’opener e titletrack è il primo singolo estratto, Coil il secondo. Entrambi i pezzi trasudano una morbosità e una sceneggiatura satura di colpi di scena in cui Jacob Bannon sembra quasi merlettare con pugni in pieno viso la prova della Wolfe. Stupenda è anche la voce di Stephen Brodsky, sì proprio lui, il ritorno del figliol prodigo, presente un po’ ovunque ed eccelso nella ridondante Flower Moon o nella stupenda Forever Failure. C’è tempo anche per i ricami eterei di Scorpion’s Rising, Crimson Stone, Blood Dawn e A Tongues Playing Dead, il brano più Converge del lotto. Un disco magnifico. Una mosca bianca nella discografia dei Converge. Una perla nella collezione di ognuno di noi!!!!
85/100
Emiliano Sammarco
Top Track: Coil
WEEDPECKER: IV The Stream of Forgotten Thoughts
Il primo impatto con “IV”, per chi arriva dal precedente “III”, è quello di un cambio abbastanza netto di genere. La traccia di apertura del disco (No Heart Beat Collective) appare aggressiva e stilisticamente molto distante da quanto potrebbe aspettarsi l’ascoltatore. La differenza rispetto a quanto proposto nel precedente album è netta, e questa differenza verrà portata avanti per tutto “IV”. Questa volta, i polacchi capitanati da Wyro, strizzano l’occhio agli anni 70 per quanto riguarda la composizione e il suono di tutte le tracce della loro nuova fatica, senza però cadere nel banale e nello scontato, confezionando quindi un prodotto che suona vintage, ma allo stesso tempo al passo coi tempi. Inutile soffermarsi a parlare delle singole canzoni, sono tutte composte e suonate in maniera convincente. Le influenze che si sentono nell’album sono molteplici, dagli Allman Brothers, ai Beatles più tossici, passando per tutti quei gruppi che hanno forgiato la psichedelia dei primi anni ’70. Per tutti i 40 minuti dell’album, l’ascoltatore viene trasportato in un trip acido che da subito crea dipendenza. Un grande lavoro viene svolto dalla sezione ritmica, che grazie al suo groove dona alla chitarra solista una solida base su cui costruire assoli caotici o sognanti, in base a quale sia il mood della canzone. Questo è un album ideale da sparare a tutto volume durante un solitario viaggio in auto verso l’ignoto (o anche andando a lavoro, funziona ugualmente!). Seppur possano non sembrare più i Weedpecker dei primi tre album, se questo è il nuovo percorso intrapreso dalla band polacca, non possiamo far altro che aspettare in trepidazione il loro prossimo album!
85/100
Cesare Castelli
Top Track: The Trip Treatment
THE OSSUARY: Oltretomba
La Supreme Chaos Records ci regala il nuovo, splendido album dei The Ossuary, Oltretomba (potremmo anche fermarci al titolo volendo). Il terzo capitolo dei nostri, dopo gli ottimi Post Mortem Blues e Southern Funeral si fa ancora più avvincente. Ratking, scelta anche dalla redazione per la compilation gratuita con le migliori band italiane dell’anno, Marijuanaut vol VIII, è un pezzo strepitoso. La band pugliese, attiva dal 2014, è cresciuta pian piano, andando ad assumere un ruolo importante nel panorama doom italiano e questo grazie ad album sempre validi come il qui presente Oltretomba. La formula non cambia, il doom dei The Ossuary si rifa a quello classico e oscuro dei numi tutelari Candlemass e Pentagram, velato di psichedelia e di un songwriting mai come ora così avvincente. Sempre degni di nota gli assoli di Domenico Mele, ottime le linee vocali di Stefano Fiore, così come puntuali e precisi il basso e la batteria di Dario De Falco e Max Marzocca. Ci sono gli anni 70 nella musica dei nostri (Mourning Star), c’è il doom classico di Ratking e gli arpeggi sinistri della stupenda Kyrie Eleison. Ci sono i retaggi occult psichedelici della strisciante Serpent Magic. C’è anche tempo per qualche sgroppata heavy (Forever into the Ground). Oltretomba è un caleidoscopio di umori e colori che gli amanti del doom vecchia scuola non possono assolutamente perdere.
80/100
Emiliano Sammarco
Top Track: Ratking
AMENRA: De Doorn
Da sempre, da quando li conobbi con il capolavoro Mass IIII, gli Amenra per me, oltre ad essere un esperienza musicale sono un esperienza spirituale, dolorosa, necessaria. Pochi gruppi, solo i Neurosis e gli Swans probabilmente, mi hanno dato la stessa sensazione di stare partecipando in prima persona a ciò che sto ascoltando/sentendo.
In questo nuovo album, le novità risiedono nel taglio netto con quel susseguirsi numerico dei vari Mass qui sostituito da un nome che significa “la spina” (come esemplificato dalla bella e minimale copertina), il cambio di label (la sempre pazzesca Relapse), e la lingua utilizzata (l’album è totalmente cantato in fiammingo), per il resto, se non un uso più accentuato dell’atmosfera, tutto è al posto giusto, ma questo non vuol dire che siamo davanti ad un lavoro minore, anzi, forse il contrario: De Doorn, per chi scrive, è uno di quegli album difficili da descrivere a parole, è uno di quei lavori talmente profondi e viscerali da far rivivere tutto un genere che ormai da tempo non vede la luce, il post metal.
Gli Amenra sono il dolore del mondo, la ferita dell’umanità, gli Amenra siamo noi e le nostre paure, i nostri drammi, le nostre redenzioni. De Doorn è la nostra spina, il nostro masso.
Emozione pura.
85/100
Lucio Leonardi
Top Track: Voor Immer
ABYSMAL GRIEF: Funeral Cult of Personality
Ne è passata di acqua sotto al ponte degli Abysmal Grief da quel lontano 1996, anno di nascita della band gonovana. Nati dalle costole di band come Death SS, Jacula, Paul Chain e compagnia gothic/dark, la band ha sempre mantenuto un’identità ben definita. Le copertine, come i testi e le atmosfere dei nostri sono realmente stranianti e rimandano ad un immaginario da horror b movie tanto caro al sottoscritto. Il nuovo Funeral Cult of Personality non si discosta di molto dai suoi predecessori, affondando le sue unghie su atmosfere plumbee, cariche di tastiere evocative, chitarre doom e impalcature gotiche. L’opener Funeral Cult descrive al meglio quel senso di oppressione e macabra austerità che già traspariva dalla copertina. Ci importa poco dell’evoluzione e del cambiamento, soprattutto per i generi di appartenenza dei nostri e soprattutto quando la qualità è eccelsa come in questo caso. The Mysteries Below (le atmosfere sono assolutamente quelle di una band black metal), This Graveyard is Mine (che fa parte della nostra compilation natalizia Marijuanaut vol VIII) o ancora Reign of Silence, per non parlare dei 13 minuti orrorifici della conclusiva The Grim Arbiter. Il punto d'incontro fra Antonius Rex, The vision Bleak e i Black Sabbath. Il tutto mescolato con le atmosfere pompose e funeree del black metal più teatrale. Et voilà!!!! Gli Abysmal Grief signore e signori. Uno dei vanti musicali di questo paese!!!!
80/100
Emiliano Sammarco
Top Track: This Graveyard is Mine
MONOLORD: Your Time to Shine
Se avete ascoltato il nuovo Your Time To Shine vi sarete sicuramente chiesti….e cosa cambia con gli ultimi album???? Bene, vi rispondo che in considerazione del fatto che innovare nel mondo del doom è quasi utipico, come dicevo anche nella precedente recensione, direi che a me va benissimo così. Anzi vi dirò di più. Ascoltare a ripetizione I’ll Be Damned il giorno di Halloween penso vi riempirà il cuore!!!! Scherzi a parte. Il nuovo corso della band non ha nulla da invidiare al precedente No Comfort che supera a livello di qualità nel songwriting. Trovo ottima la prova di Jager, molto migliorato rispetto al passato e fresco del suo lavoro solista, A Solitary Plan, uscito lo scorso anno e accolto molto bene anche da critica e pubblico e che sicuramente lo aiutato a dare più focus alle sue vocals. Insomma. Potranno non piacervi. Ma pezzi come The Weary, la titletrack o la conclusiva The Siren of Yersinia, non potranno non conquistarvi con i loro horror riffs ed un gusto per la melodia del tutto rinnovato. Davvero bravi. C è chi dice che la Svezia non è solo Monolord in ambito doom. Magari avranno anche ragione. Ma io me li tengo stretti.
80/100
Emiliano Sammarco
Top Track: I'll Be Damned
PREHISTORIC PIGS: The Fourth Moon
Arrivato al quarto album, il trio udinese non si risparmia e per i poco meno di 40 minuti di durata dell’album ci spara bordate strumentali stoner metal/rock direttamente da qualche remota regione spaziale. L’album scorre via che è un piacere, con tracce che seppur non escono da certi canoni richiesti dal genere, sanno essere tutti personali e ben suonati. Dalla prima all’ultima canzone, sono pochi i momenti di tregua e tutto l’album scorre via rapido, come se si stesse viaggiando a grande velocità su qualche astronave sopra aridi paesaggi desertici alieni. Per questo lavoro risulta difficile parlare delle singole canzoni, ma alcune di esse meritano un cenno in quanto risultano quelle che più colpiscono l’ascoltatore. Queste sono “Old Rats”, forse la traccia più atmosferica dell’intero lotto, nella quale ci si può immaginare descritta una ipotetica città carovana che vaga nel deserto che i Prehistoric Pigs ci stanno facendo esplorare. “Crototon” segue subito “Old Rats”, dirigendo l’ascoltatore fuori dalla città carovana nuovamente alla volta del deserto. L’altra canzone che merita di essere menzionata come terzo punto saliente dell’album è “Left Arm”. La canzone è trainata da un riff granitico e che odora subito di deserto di frontiera, rendendo molto bene l’idea di sfrecciare su di esso a bordo di un navicella. In quest’album i Prehistoric Pigs offrono una proposta suonata dannatamente bene che sono sicuro quest’album rimarrà nei lettori fisici o digitali degli appassionati del genere per molto tempo.
75/100
Cesare Castelli
Top Track: Old Rats
I Juju nascono dalla mente di Gioele Valenti, produttore e multi strumentista conosciuto in Italia anche per il suo progetto Herself insieme a Jestrai dei Verdena.
I primi tre dischi dei JuJu sono usciti in principio con l'americana Sunrise Ocean Bender e poi con la britannica Fuzz Club Records, riscuotendo ottimo successo anche in Europa. La band mischia molte influenze al suo interno come Psych e occult rock, kraut, shoegaze, darkwave, post punk. Tutti generei apparentemente lontani, ma mai così vicini come nella musica dei Juju. La Que Sabe è un concentrato di ottima musica, scritta e prodotta ottimamente, che si apre a contaminazioni, spesso anche dal flavour folk mediterraneo, ma che rimane sempre inserita all’interno di canoni ben precisi, perfettamente definiti e identificabili. Se She’e Perfect e Beautiful Mother mostrano il lato più occult rock e psych dei nostri, altrove le atmosfere si fanno più eteree come in Nothing Endures o wave e post punk, vedi la Johnny Marr oriented opener Not This Time o addirittura si va a pescare nell’indie di Walk the Line. Bellissimi anche i colori psichedelici di Seven Days in the Sun. Album davvero elegante.
78/100
Emiliano Sammarco
Top Track: She's Perfect
BUMMER: Dead Horse
Non nascondo il mio amore per le cose marce, dolorose, grondanti sangue da ogni poro. I Bummer da Kansas City (e da dove sennò?), sono sporchi, cattivi, marci fino al midollo, suonano quel letale miscuglio di noise rock e post hardcore che vede tra i suoi capisaldi gli Unsane, e fanno male, molto male. Dead Horse esce per la splendida fucina di nuovi interessanti talenti quale è la Thrill Jockey, si avvale di 11 mazzate sui denti, senza fronzoli, dritti al punto, 29 soli minuti di durata ma che vi basteranno per richiedere l’intervento di un otorino.
Dissonanze, rabbia, dolore, ferocia, riff spacca ossa, volumi esageratamente esagerati, fanno di questo gioiellino, partorito dalla mente di Matt Perrin, Sam Hutchinson e Mike Gustafson in chissà quale lurida sala prove del Kansas, uno dei dischi dell’anno in ambito, appunto, noise.
Poi vabbè, c’è un titolo come “I Want To Punch Bruce Springsteen In The Dick” che vale da solo il prezzo del biglietto.
80/100
Lucio Leonardi
Top Track: Barn Burner
THE NUV: Belgian Hope
Belgian Hop[e], pubblicato ufficialmente in collaborazione con Moquette Records (ITA) e Mottow Soundz (BEL), è il nuovo disco degli italiani The Nuv. Il terzo album di solito si sa è il disco della prova del nove. Il flop o la consacrazione. Questi ragazzi bisogna ammettere che ci sanno fare e riescono a fare centro con un disco diretto, piacevole, scritto bene e suonato ancora meglio. Se l’intro Check Out è un bluesaccio alla ZZ Top, è con la successiva The Wolf of Green Street che i nostri indirizzano il disco. I suoni si fanno via via più aridi, ma anche molto più orecchiabili, in una sorta di jam tra Queens if the Stone Age e Foo Fighters. Clockhurt perde quel tocco alternativo ma ne acquista uno post grunge che fa decollare il brano verso l’etere e se Gold Digger torna verso The Wolf of Green Street, con Pulp si corre verso atmosfere più british. Spillover si anima di suoni psichedelici, mentre Plasma mischia l’anima desertica a quella 90ies dei nostri. Molto bella anche Red Carpet e la Nine Inch Nails Dead Frog. Album davvero bello. Un peccato non averlo inserito nella nostra playlist di fine anno. Bravi bravi.
78/100
Emiliano Sammarco
Top Track: The Wolf of Green Street
KING BUFFALO: Acheron
A distanza di 6 mesi dall’ultimo “The Burden of Restlessness” i King Buffalo tornano con un altro album, questa volta con un approccio meno diretto e più votato alla psichedelia. La particolarità dell’album risiede nel fatto che è stato registrato all’interno delle Howe Caverns, complesso di caverne nello stato di New York, le quali ospitano anche un lago sotterraneo. Una location adatta al concept dell’album, incentrato sul fiume infernale Acheronte. Peccato che il risultato finale si presenti altalenante a livello qualitativo. Partiamo dal principio. L’album si apre con la titletrack, facendoci immergere pienamente nel fiume Acheronte, nella nostra discesa verso gli Inferi. La traccia si presenta come un perfetto mix delle due anime dei King Buffalo, alternando sapientemente sezioni psych a sezioni più orientate verso un rock più energico. Questa prima traccia ci fa subito capire quali saranno le coordinate prese dal trio di Rochester per l’intero album. Le due tracce centrali (“Zephyr” e “Shadows”) risultano essere il vero tallone di Achille dell’intero lavoro. Soprattutto la prima delle due appare poco ispirata, nonostante si risollevi nel finale grazie al bellissimo assolo che Sean McVay riesce a tessere, ma che purtroppo non basta a salvare la canzone da un senso di incompiutezza che la permea dall’inizio alla fine. Un po’ meglio “Shadows”, che pur riprendendo la struttura di “Zephyr”, appare più ragionata e meno derivativa in generale. È la volta della traccia di chiusura, “Cerberus”. Questa traccia risolleva un po’ il mood generale dall’album lasciando all’ascoltatore un senso di compiutezza e di più attenzione dedicata ad essa in fase di composizione. “Acheron” risulta un album con il quale i King Buffalo potevano osare di più, composto e suonato bene, ma a tratti in maniera un po’ impersonale. Peccato, perché forse con un po’ di lavoro in più l’album sarebbe potuto essere più godibile e puzzare un po’ meno di già sentito.
70/100
Cesare Castelli
Top Track: Cerberus