giovedì 21 ottobre 2021

HEAVY IN THE BOX (October 2021)))

a cura di: Emiliano Sammarco

Redattori: Lucio LeonardiGianmarco Zampetti, Cesare Castelli



TOP ALBUM:

LOW: Hey What

Lo dico già in apertura: i Low sono una delle band migliori di tutti i tempi. Non solo per la musica, profonda, bellissima, che riescono a donare, ma anche e soprattutto per la straordinaria longevità della loro proposta: da 30 anni risuonano nell’etere le loro melodie, sempre simili, ma che con un modo assai misterioso, riescono a non stancare mai, come se fosse una musica ormai necessaria per l’equilibrio mentale di ognuno di noi e riescono a suonare attuali 30 anni fa come adesso. Hanno trovato la loro dimensione anni orsono, e da allora l’hanno cambiata nella forma, ma non nella sostanza, riuscendo a sembrare diversi ma familiari allo stesso tempo.
Hey What è la fine di una trilogia del rumore, se così possiamo chiamarla, sodalizio con il produttore Bj Burton, iniziata con Ones and Sixes, proseguita con il meraviglioso Double Negative e portato a termine con quest’ultimo tassello. Come nel precedente non c’è alcuna forma canzone, se non a sprazzi qua e la, ci sono bensì melodie, struggenti, magnifiche (come loro solito) che si susseguono indecifrate su impalcature noise, rumorose, pulsanti (seppur di batteria, se non nell’ultimo brano, non v’è traccia alcuna), portate alle estreme conseguenze in fase di mixing e mastering (come detto dagli stessi interessati), come a cercare la bellezza nell’astrazione del rumore, ma più elaborato e destrutturato rispetto al precedente album. E misteriosamente, il risultato è un ulteriore capolavoro di musica “pop” per il futuro (che ci sarà o non ci sarà, questo non c’è dato saperlo).
Hey what è un flusso continuo dove è inutile citare un brano anziché un’altro, un magma sonoro, talmente profondo da divenire essenziale, talmente minimale da essere perfettamente completo, senza cali, senza brani minori, una meraviglia del nostro tempo. Album dell’anno per quanto mi riguarda.

LUCIO LEONARDI
90/100

TOP TRACK: Hey






MONO: Pilgrimage of the Soul 

Il pellegrinaggio dell’anima. Il titolo del nuovo album dei Mono racchiude l’essenza non solo di un album, ma di un’intera carriera. Un pellegrinaggio lungo ben ventidue anni. Era il 1999 infatti quando la saga dei giapponesi inizió e da allora non abbiamo mai finito di percorrere questo lungo cammino che unisce la mente al cuore. Che punta il divino e le stelle, l’oblio e l’abisso, la luce e l’oscurità in egual misura. 
Steve Albini dietro la consolle accompagna i Mono, cullandoli nel loro fiabesco mondo merlettato di silenzi e di caleidoscopici colori che aprono le porte a universi multidimensionali e realtà parallele che si uniscono e si allontanano così come il tracciato delle nostre vite. The last Dawn per chi scrive rimane il loro capolavoro inarrivabile per intensità emozionale, ma anche il nuovo album ci spinge in profondità. Nei bui angoli di un’anima tormentata. Spesso ci si scontra con tiepide atmosfere, delicate e sognanti. In Hold Infinity In the Palm of your Hand sembra quasi di essere giunti vicini all’arrivo di una pace interiore tanto agognata quanto insperata. La malinconia che lascia spazio alla pace della conclusiva And Eternity in an Hour. Pochi i momenti concitati come nel singolo Riptide. I Mono per Pilgrimage of the Soul puntano tutto su lacrime catartiche e sogni sospesi nel tempo. 

EMILIANO SAMMARCO
85/100

TOP TRACK: Riptide






HOODED MENACE: The Tritonus Bell 

Giunti al loro settimo full-length, ci si potrebbe aspettare che il nuovo corso degli Hooded Menace sia un polpettone di vecchie glorie e formule già abbondantemente sfruttate; e invece, quello che ci troviamo davanti è un lavoro solidissimo, ben scritto e, soprattutto, ispiratissimo. 
Stavolta il quartetto finlandese ha deciso di intingere il suo death/doom granitico nei classiconi dell’Heavy Metal anni ’80 (King Diamond, Merciful Fate). Il risultato è un divertentissimo disco denso di groove ed estremamente catchy: siamo di fronte al lavoro più “veloce” della band, che comunque riesce a mantenersi radicata al suo death metal cavernoso e intriso di melodie malinconiche (ma mai stucchevoli, il che è molto gradito). 
La produzione è impeccabile come al solito. Le vocals si incastrano alla perfezione e, manco a dirlo, i riff sono qualcosa di incredibile. In poche parole, “The Tritonus Bell” è una vera bomba. Consigliatissimo. 

GIANMARCO ZAMPETTI
85/100 

TOP TRACK: Those Who Absorb the Night






THE GLUTS - The Gluts 

È un Sabato mattina come tanti. Sono le 6 e il chiarore mi da il buongiorno dalla finestra. È una mattinata fresca, piacevole. Pronto per correre nel parco vicino casa. Cuffiette alle orecchie. Guardo la copertina. Ah però, per un amante di piedi e caviglie come me non è male l’inizio, anche se sembra la copertina di un gruppo hair metal. Spingo play e boom. Mashilla mi investe con la sua prepotenza straripante. Sembra di ascoltare i Gallows riposseduti dai Lecherous Gaze. Un inizio scioccante e irresistibile. Love me do Again è più composta con un tiro decisamente punk stradaiolo. Breath parte invece sludge per poi aprirsi a velocità più sostenute e richiudersi su se stessa diventando un brano alla Satan’s Satyrs. Leyla Lazy Girl From the Moon cambia completamente strada, portando l’ascoltatore agli anni 90 e allo shoegaze. Si sì avete capito bene. Un ottimo brano, spiazzante che ci catapulta di nuovo nel sound ruvido dei nostri. Something Sunreal, Ciotola di Satana, sino ai quasi otto minuti della bellissima Eat Acid See God che sembra uscita dall’ennesima Jam. Stavolta fra Kylesa, My Bloody Valentine e Ty Segall fatto di acidi. Nel sound dei Gluts c’è di tutto. Sludge, punk, hardcore, noise, psichedelia, blues, retaggi post grunge e shoegaze. Band superiore. 

EMILIANO SAMMARCO
84/100 

TOP TRACK: Eat Acid See God






GIOBIA/THE COSMIC DEAD: The Intergalactic Connection - Exploring The Sideral Remote Hyperspace 

A partire dal 2020 la Heavy Psych Sounds Records ha iniziato a proporre le “Doom Sessions”, degli split album/ep in cui figurano diversi artisti del suo roster. Con questa uscita, non ci si trova però sulla terra, schiacciati da monolitici riff doom, ma si viene catapultati nelle profondità dello spazio. Infatti, questo split vede la presenza di due realtà dedite ad uno space rock psichedelico capace di passare dal suo lato sognante ed etereo a quello più energico e diretto. Le prime tre tracce sono affidate ai Giöbia, realtà italiana che con il suo Plasmatic Idol (2020) deve aver intercettato le frequenze lanciate nell’etere dagli scozzesi The Cosmic Dead reduci dal loro ottimo Scottish Space Race (2019). I Giöbia spaziano dal rock psichedelico che strizza l’occhio agli anni ’60 dell’opener “Canyon Moon” alla psichedelia ambient della conclusiva “Meshes of the Afternoon”, passando per la bellissima ed evocativa “Julia Dream”. Il trittico di canzoni dei Giöbia accompagna l’ascoltatore in un calando di tensione fino a sospenderlo nello spazio inesplorato. Si procede quindi alla traccia finale dello split, la imponente “Crater Creator” dei The Cosmic Dead, quasi 20 minuti di psichedelia e space rock che accompagnano l’ascoltatore dalla calma delle regioni più remote e siderali dello spazio dove è stato lasciato dai Giöbia, spingendo gradualmente l’acceleratore in un crescendo di tensione psichedelica figlia di mostri sacri come Colour Haze e Yawning Man. La lunghezza totale dell’album, inferiore ai 40 minuti, permette di mantenere la soglia dell’attenzione alta durante tutto l’ascolto, non risultando mai banale e accompagnando l’ascoltatore nel suo solitario viaggio tra le stelle. 

CESARE CASTELLI
80/100

TOP TRACK: Crater Creator (The Cosmic Dead)






SHY, LOW: Where The Light Bends 

Gli Shy, Low vengono da Richmond, Virginia ed escono per Pelagic Records, label che in campo post rock/metal sembra non sbagliare un colpo. Giunta al quarto album, la band, con questo Where the Light Bends trova il giusto connubio tra le anime che la percuotono. Chiaro scuri che si alternano in un’altalena di sali e scendi emozionali che si vanno a posizionare nei pertugi che i suoni si aprono al loro passaggio. Brani come le minacciose Umbria e Fulgurations o come le stupende e più malinconiche Helioentrophy e The Beacon sono l’esempio perfetto di quello che gli Shy, Low sono diventati. Se amate bands come Russian Circle, PG Lost, anch’essi usciti da poco per Pelagic, Mono, Pelican, Caspian e compagnia postereccia, avrete pane per i vostri denti. Imperdonabile lasciarseli sfuggire… 

EMILIANO SAMMARCO
80/100 

TOP TRACK: The Beacon






LINGUA IGNOTA: Sinner Get Ready


Con Caligula, Lingua Ignota, al secolo Kristin Hayter, aveva dato alle stampe la sua personale visione del dolore, profondo, lacerante, insostenibile, attraverso un amalgama di nenie pianistiche calate dentro colate laviche di noise, doom, industrial, dark ambient. Ne uscì fuori un album pesante, profondo, distruttivo (nell’accezione psicologica del termine), a tratti disturbante, a tratti insostenibile seppur sempre bellissimo ed emozionante.
Con questo quarto album, Kristin continua con le tematiche sulla violenza sulle donne, sulla rabbia e sulla vendetta, ma con un approccio musicale diverso rispetto al succitato terzo album, andandosi a riallacciare ai suoi primi due lavori. Quindi meno digressioni noise e disturbanti ma più cantautorato liturgico, profondo, liricamente emozionante, meno pesante e più aperto a farsi fruire e capire, meno chiuso in se stesso. Ne viene fuori un nuovo album stupendo, pieno di strumenti caratteristici, pianoforti, sovrapposizioni vocali insolite ma ben calibrate, avvicinandola più ad un Nick Cave che ai The Body.
Sinner Get Ready è un lavoro maturo, sentito, enorme nel suo mettere in musica così bene ogni emozione e sentimento descritto dai testi, un album meno ostico e per questo uno dei suoi più belli.

LUCIO LEONARDI
80/100

TOP TRACK: Pennsylvania furnace 






THE OCEAN: Phanerozoic Live 

Amo i The Ocean e sicuramente per chi scrive, Phanerozoic II: Mesozoic/Cenozoic è uno dei punti più alti raggiunti dalla band nella sua carriera quasi ventennale. I tedeschi, decidono, a distanza di un anno dall’ultima fatica in studio, di pubblicare un live di quasi due ore in cui ripercorrono per intero la parte prima e la parte seconda di Phanerozoic. Quindici pezzi eseguiti ovviamente magnificamente. Un live vero, senza troppi ritocchi e fronzoli. Ovviamente performato a livelli altissimi e accompagnato dal solito packaging monumentale della Pelagic Records che ci propone edizioni limitate da capogiro. Se non conoscete la band allora vi consiglio di rimediare immediatamente recuperando tutta la loro discografia in blocco. Magari partendo proprio da quel Fogdiver che nel 2003 diede inizio alle danze. 

EMILIANO SAMMARCO
80/100 

TOP TRACK: Holoscene






KOWLOON WALLED CITY: Piecework 

Ritorno discografico dopo sei anni per gli americani Kowloon Walled City, più precisamente provenienti da Oakland. La band, soffocate le asperità più veloci del proprio songwriting, si presenta con questo Piecework in ottima forma. Le atmosfere sono plumbee, lente, violente, dal retaggio post rock/metal. Sin dalla titletrack posta in apertura è chiaro l’intento dei nostri. Creare pezzi stranianti ed isolazionisti. Il cantato monocorde del chitarrista/cantante Scott Evans rende questa informe materia sonora ancora più pericolosa. Senza nemmeno il bisogno di utilizzare voci gutturali. Sussurri. Arpeggi e silenzi si alternano ad esplosioni deflagranti, segno inconfutabile che i nostri, editi da Neurot Recordings, fanno davvero sul serio. 

EMILIANO SAMMARCO
75/100 

TOP TRACK: Piecework






BROWN ACID: The Thirteenth Trip

La Riding Easy non sembra volersi fermare e ci propone il tredicesimo trip della sua fortuna compilation, oramai diventata un appuntamento fisso per gli amanti di certe sonorità. Un lavoro, quello della label davvero minuzioso, nello scovare band e artisti sepolti nel tempo e nel dimenticatoio. Heavy rock from the underground comedown, come amano definirla dalla prolifica Riding. Dieci canzoni eterogenee che ci trasportano in un mondo parallelo, come in Run Run dei Max o Dark Street di Ralph Williams, piuttosto che Feelin Dead dei Master Danse o Detroit dei Good Humore. Bei pezzi che nascondono al loro interno qualche piccola perla (come Indecision di John Kitko) da custodire gelosamente. La speranza è che questo appuntamento duri ancora a lungo. Bravi. 


EMILIANO SAMMARCO
70/100

TOP TRACK: John Kitko: Indecision
 




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