venerdì 18 novembre 2022

HEAVY IN THE BOX (October/November 2022)))

a cura di: Emiliano Sammarco


TOP ALBUM



OVO: Ignoto

Drone, doom, psichedelia nera, sperimentazione mai fine a se stessa.
Il viaggio ultimo degli Ovo non è roba per tutti. Non è per persone sane di mente quantomeno. Due canzoni divise in quattro movimenti ciascuna. 
La follia, l’inquietudine, l’oblio. Anche la morte può morire in Ignoto. Viaggio dantesco che si abbevera direttamente alla fonte del male. Un eruzione che sfugge alla quiete della notte per raccogliere detriti di sangue e ossa puntate come stendardi nel cimitero della vita.
"La Morte Muore" è il costante flusso della follia nulla società umana. Non stancatevi. Non cambiate traccia per quanto sfiancante possiate pensare sia sopportare tanto dolore. Alla fine ogni cosa andrà al suo posto. Ogni richiamo alla morte ne nasconde uno alla vita. Ogni richiamo alla vita ne nasconde uno alla morte. La musica man mano cresce. Si dimena, si contorce, si inasprisce, si lamenta solitaria nella valle di ombre che i suoni e le urla si portano dietro (Distillati di Tenebre). 
E poi uno spiraglio di luce. Ogni tanto. A ricordarci che il mondo è duale. 
Cosa può essere definito un capolavoro al giorno d’oggi se non qualcosa in grado di sconvolgerti nel profondo?

Emiliano Sammarco
90/100






BLUT AUS NORD: Disharmonium

Tornano i Blut Aus Nord, dopo la svolta psych-space-metal dell’ultimo, bellissimo, Hallucinogen, che aveva virato, con successo, il nero tipico del sound dei transalpini in un viola acido: non a caso sulla copertina, bellissima, campeggiavano funghi (allucinogeni?) di chissà quale anfratto dell’universo. Li avevamo lasciati con un viaggio astrale, psichedelico, originalissimo, ma lungi dall’essere oscuro, anzi così pieno di una strana forza vitale da renderlo quasi luminoso, a tratti accecante.
Con Disharmonium, Vindsval e soci (soci?), intraprendono la stessa strada, proseguono il loro viaggio negli anfratti astrali, ma questa volta, come loro consono, cambiano il punto di vista: se il precedente era un viaggio, quindi una perlustrazione del cosmo, in cerca di chissà quale forma di vita, questo è il punto critico, il momento dell’incontro, il momento della scoperta, la scoperta di un universo altro, cupissimo, dove a farla da protagonista sono creature immonde, alieni senza pietà, distruttivi e non dissimilassi da ciò che il caro buon Lovecraft ci narrava nelle sue terrificanti storie.
Quindi sempre metal psichedelico, intriso di umore ovviamente provenienti dal metallo nero (seppur sperimentatori a tutto tondo, i nostri provengono sempre da quel girone), batterie sbilenche, voci dall’oltretomba, chitarre mai così avviluppate su se stesse, synth tanto avvolgenti quanto terrificanti, ma il tutto, a differenza del suo predecessore, inghiottito da un nero pece che calpesta tutto, talmente inquietante da diventare attraente. Si potrebbe dire che l’intero album sia in realtà un’unica traccia tanta è l’omogeneità della proposta, e questo forse potrebbe essere l’unico neo (originale, ma non per tutti).
Vindsval compie un altro passo essenziale nel suo abisso personale, un viaggio nel cosmo più inquietante ma anche, a ben vedere, e sentire, un viaggio all’interno delle nostre paure più profonde, le paure dell’infinito e dello sconosciuto. Ancora una conferma, ancora una volta, come se ce ne fosse stato bisogno di nuovo. Genio.

Lucio Leonardi
90/100






THE BLACK ANGELS: Wildrness of Mirrors

Il ritorno discografico dei Black Angels era spasmodicamente atteso per chi vi scrive. La band texana ha sempre generato un magnetico fascino per i miei sensi. 
Se si esclude il folgorante debut, il qui presente Wilderness of Mirrors è di sicuro il miglior disco mai scritto dai nostri. La cosa bella di quest’album è la freschezza che si percepisce, nonostante la sua forma sia decisamente vintage; ed è proprio questa la carta vincente dei “nuovi” Black Angels. Riuscire a far passare la psichedelia, le chitarre ultra compresse e fuzzate e quel piglio garage nella cruna dell’alternative moderno. 
Wilderness of Mirrors presenta la stessa moderna morbosità degli ultimi Black Foxxes, all’interno però di curve pericolose, espanse e retró che appartengono a band come Psychic Hills e Black Mountain tanto per darvi un’idea. Nascono così perle assolute come la ritualistica opener Without a Trace, la strepitosa History of the Future, la più classica ma altrettanto bella El Jardin, sino ad arrivare alle psichedeliche perle dal taglio acustico di Here and Now e 100 Flowers of Paracusia. Album da urlo. 

Emiliano Sammarco
85/100 






DEAF RADIO: Arsenal of Hope

C'è chi aveva storto il naso dopo il primo singolo Modern Society (arrivato già a Giugno 2021), in quanto la band greca sembrava aver cambiato decisamente rotta. 
I due buonissimi album Alarm e Modern Panic abbracciavano sonorità stoner alla Queens of the Stone Age, mentre il nuovo singolo spingeva verso suoni moderni puntellati però da tastiere anni 80 che tanto si macchiavano di primi White Lies e di una forma di  alternative decisamente lontana dagli esordi. Nonostante il cambio di stile i Deaf Radio non solo (per quanto mi riguarda) trovano il loro habitat più congeniale alle loro capacità, ma sfornano un disco davvero bellissimo. Già da Animals del precedente disco si era intuito che la strada da seguire era ben altra. Con questo presupposto vi dovrete avvicinare a pezzi come Supersonic, Havoc (la mia preferita), la già citata Model Society, Crystal Fears, In This War, la titletrack. Canzoni costruite in modo impeccabile, dai refrain irresistibili, che mantengono potenza ma aggiungono eleganza al carnet della band. La paura è che in futuro i nostri possano ammorbidire ulteriormente i suoni, snaturandosi del tutto. Con la speranza che ciò non accada, nel frattempo ci godiamo Arsenal of Hope, album superlativo, da divorare in queste prime notti invernali. 

Emiliano Sammarco
85/100






DEVIL'S WITCHES: In All Her Forms

Attendevo un nuovo parto su lunga distanza dei Devil’s Witches da quel Velvet Magic di cinque anni fa. Da allora i nostri non si sono di certo fermati. Una serie di singoli (su tutti la splendida Guns, Drugs & Filthy Pictures) hanno fatto crescere l’attesa per una delle band più enigmatiche del panorama doom odierno. In All Her Forms è un disco buio sin dal duo iniziale L’Image e Successive Sliding of Pleasure. Doom claustrofobico dal forte impatto emozionale. Poi parte Blood of the Witch e sembra di sentire un mix del Beck più malinconico (si si avete letto bene) che jamma con la sua parte più oscura per un pezzo che sembra lasciar filtrare molta luce, ma che invece risulta ancor più morboso proprio per via del suo approccio. Il disco si alterna tra lunghe cavalcate lisergiche (Space Age Sorceress, Shadow in the Mirror) a pericolosi lidi psych pop occulti (Hunting Dracul, Smoke and Sorcery). Solo Queen of Wands si lascia andare ad un tiro più hard rock che sta decisamente bene nelle corde di questa band. Album davvero affascinante. Uno dei migliori in ambito doom sino a questo momento. 

Emiliano Sammarco
85/100 






ALL SOULS: Ghost Among Us

Nati nel 2016 da membri di Fatso Jatson (Tony Tornay, anche con Brant Bjork e le Desert Session di Josh Homme) e Totimoshi (Meg Catellanos) insieme al singer Antonio Aguilar, gli All Souls tornano con lo splendido Ghost Among Us, un melting pot di psych dark stoner dal fortissimo e ombroso magnetismo.
I nostri, già in tour con mostri sacri come Tool, The Jesus Lizard e Melvins, hanno affinato maggiormente le loro armi, regalandoci una manciata di canzoni sublimi. 
Poison the Well, Roam (di cui è disponibile anche un video), Who Holds the Answer, Absquatulate, Key to your Heart, un brano più bello dell'altro. Album notturno, lisergico, psichedelico, gotico. 
Prodotto da Alain Johannes, il che è decisamente una garanzia, questo Ghost Among Us è un disco da ascoltare e riascoltare con estrema attenzione. Un album nato nel sole della California ma cresciuto pian piano nelle radici notturne che la band ha nutrito all'ombra del deserto. Sarebbe molto interessante, vista la crescita dei nostri, testarli anche in una dimensione live. 

Emiliano Sammarco
84/100






ABRAMS: In The Dark

Prodotto e registrato da Dave Otero, già a lavoro con i Khemmis, edito da Small Stone Records, il nuovo album degli americani (di Denver) Abrams fa fare un netto passo in avanti alla band, che già avevamo recensito col precedente e buonissimo Modern Ways di due anni fa.
Il nuovo In The Dark continua ad attingere al sound grungy dei 90ies con una visione aperta a 360 gradi verso lo stoner e l’alternative del nuovo millennio. Ne esce fuori un disco che pigia l’acceleratore su canzoni davvero ben costruite. Spesso dal tiro heavy (Death Tripper, Like Hell), altre volte dagli ampi respiri shoegaze/grunge di cui è saturo (Better Living, Fever Dreams, Body Pillow). Un album che si mantiene vivo e brillante per tutta la sua durata. Davvero ottimo. Bravi bravi.



Emiliano Sammarco
83/100 






GOAT: Oh Death

Era da Requiem che non avevamo tra le mani un album dei Goat.
La raccolta Headsup lo scorso anno ci aveva fatto pregustare un loro ritorno che alla fine c’è stato. 
Oh Death torna un po’ alle origini, sempre ovviamente con la world music e l’afro nel cuore (vi sfido a contare la quantità di band interessanti che sono nate dai Goat), ma con tanta bellezza acid  (Soon You Die) e astratti viaggi  psych rock (Remind Yourself). Non che manchi la sperimentazione. Belle le linee Free jazz di Under no Nation, così come belli sono i vivaci colori funky sparsi ovunque nel disco.
Ci mancavano questi Goat senza tempo e più graffianti. Musica affascinante, sincera e assolutamente di livello eccelso. Davvero tanta roba questo ritorno discografico. 

Emiliano Sammarco
83/100







CLUTCH: Sunrise on Slaughter Beach

Era il 2018 quando uscì Book of Bad Decision. Poi una serie di pubblicazioni volte ad infoltire la già ricca discografia della band, ma nessun vero nuovo album. Eravamo pertanto molto curiosi di ascoltare il nuovo Sunrise on Slaughter Beach. 
Diciamolo subito. Il disco batte di gran lunga il suo predecessore. La miscela è sempre la stessa, un mix di stoner e blues che si muovono nervosamente nel telaio di un album che però sa offrire non solo ottime canzoni come da tradizione Clutch, vedi l’opener o la title track, ma che sa regalare sapori diversi come nelle melodie merlettate di epicità della splendida Mercy Brown, con tanto di cori femminili a renderla ancora più pomposa nel finale. Bellissima anche la conclusiva Jackhammer Our Names, ballata profonda che colpisce al cuore. Degne di menzione anche l’oscura Three Golden Horns e Skeleton on Mars. Non ci sono passi falsi. La tracklist è diversificata e non stanca mai. Senza dubbio, per chi scrive, uno dei migliori album dei Clutch di sempre, che seppellisce il 90% dei dischi stoner usciti quest’anno. 

Emiliano Sammarco
83/100






A VIOLET PINE: Crown Shyness

Una parola per descrivere il nuovo album degli italiani A Violet Pine? Emozionante. 
Il quarto capitolo della band nostrana parte con l’eleganza di Rain, che sembra uscita dal song book dei Pineapple Thief. Ben presto il quartetto (con un assetto a due chitarre e batteria, senza basso) vira verso lo stoner di Rust, che però si veste di in emotività tutta 90ies. Come dei primi Nada Surf con le chitarre dei Greenleaf. Con Us i suoni si fanno nuovamente soffusi. Liquidi. Ma è una calma apparente perché il crescendo ti lacera il cuore. Heaven in my Desire mischia invece ancora lo stoner (trade union dell’intero lavoro) con atmosfere gotiche di più facile presa. Il tutto avviene in modo estremamente naturale, così come per le digressioni ai limiti del post core di Moz. Molto bella anche Am i There, che shakera riff stoner con sonorità post grunge nel ritornello.
Crown Shyness è sicuramente un disco completo, il migliore della discografia dei Pine, sicuramente quello più maturo ed emozionante. Questa è una band che ha molto da dire. Soprassedere sarebbe delittuoso. 

Emiliano Sammarco
82/100






CONAN: Evidence of Immortality 

Pesante, granitico, massiccio sono alcuni degli aggettivi che meglio caratterizzano il sound dei Conan. Quest’album non fa eccezione, e, anzi, aggiunge ulteriore pesantezza al sound dei nostri la scelta di aggiungere sezioni in blast beat, sconfinando in campo death metal, più che doom. Un ottimo esempio ne è la traccia “Levitation Hoax”, che, se non fosse per la mancanza di una voce in growl, potrebbe benissimo essere un pezzo scritto da qualche death metal band di metà anni ’90. La seguente “Ritual of Anonymity” non è da meno. In questa traccia i riff sono supportati da un drumming id ispirazione punk, riportando alla mente diversi gruppi thrash metal. Quello che ne traspare ascoltando tutto “Evidence of Immortality”, è che Jon Davis e soci abbiamo voluto omaggiare, a modo loro, i gruppi che li hanno avvicinati al metal e i quali li hanno spinti a diventare dei musicisti. Tutte le tracce risultano comunque essere ben scritte, avvincenti e mai scontate (se si pensa ai limiti del genere). Il picco più alto di tutto l’album viene forse raggiunto nella quarta canzone dell’album (“Equilibrium of Mankind”). Sicuramente la più tossica di tutto l’album e anche quella dove il marchio Conan è sicuramente più presente. La chiusura dell’album è affidata ad un traccia lunga ben 14 minuti e mezzo, che accompagna l’ascoltare in scenari onirici, grazie anche all’ampio uso di tastiere, sconfinando quasi nel post metal. Come per ogni album dei Conan, a fine ascolto la sensazione è quella di essere appena stati investiti da uno schiacciasassi, ed è un bene che sia così. 

Cesare Castelli
80/100






JACK WHITE: Entering Heaven Alive 

Dopo Fear of the Dawn, album elettrico ed eclettico del sempre ottimo Jack White, il genio ex White Stripes a distanza di tre mesi ci delizia con un album acustico che fa da alter ego al suo predecessore. Dieci nuovi pezzi più la versione gently di Taking Me Back (di cui preferisco decisamente la canzone originale). Per il resto Jack si diverte con la tradizione americana. Ma attenzione. Non parliamo di un divertissment a se stante o di un progetto da relegare in un angolo. In Entering Heaven Alive le canzoni sono il fulcro dell’intero lavoro. Dall’opener A Tip From You to Me, alla strepitosa A Madman From Manhattan, passando per All Along the Way, la funky I’ve Got You Sorrounded e Love is Selfish (che è un po’ la Love Interruption del disco). Non c è un pezzo debole. Jack ancora una volta è qui per mostrarci il suo estro compositivo, senza strambismi a tutti i costi. La semplicità a volte paga. 

Emiliano Sammarco
80/100 






MAI MAI MAI: Rimorso

Lo ammetto, anche se me ne vergogno un pò, sono da sempre stato troppo esterofilo, quindi tendo a guardare e dare il mio interesse a ciò che viene da artisti non italiani. Questo però, a volte, mi preclude lo scoprire realtà veramente interessanti, particolari e realmente personali. Stavo, per questo motivo, perdendomi il ritorno dopo 3 anni dall’ultimo “Nel Sud”, peraltro molto bello, di Mai Mai Mai, al secolo Toni Cutrone. Il disco ingloba scorie industrial in un mare di ambient/ noise/drone cupissimo e si scontra con la tradizione dei canti del sud, con la popolarità e con il folklore. Ne viene fuori un album che riesce a coniugare in sé questi due mondi, così apparentemente distanti, ed espellerli in un unico grande calderone omogeneo e bellissimo che ti imprigiona e ti tira giù, nelle viscere del suo cuore nero.
Già dall’apertura, affidata alla voce di Maria Violenza, sciorinante una litania dialettale, di “Secondo Coro delle Lavandaie” si capisce cosa ci verrà mostrato: un luogo/non luogo dove la musica è un veicolo per raccontare il passato, il presente, il futuro di una terra, il meridione, così piena di sole, ma, allo stesso tempo, così piena di ombre, di squarci folkloristici così bui (bellissima “Nostalgia”).
Un album che trova il suo neo quando le collaborazioni finiscono e viene lasciato il timone al solo Toni: i 3 brani di chiusura, anche quello con Lino Capra Vaccina per cui nutrivo una speranza di una qualche sorpresa finale, si svuotano ed è come se smettessero di raccontare e raccontarsi, risuonano algide e prive di quel calore che finora aveva riempito l’aria. Questo però, fortunatamente, non ne inficia il risultato finale: un album stratificato, personale, dove i droni, i synth, i rumori, le drum quasi industrial si fondono elegantemente con l’apparato, appunto, folkloristico, per rendere il tutto così omogeneo e ben strutturato da creare un atmosfera strana, cupa, calda, avvolgente, a volte intimorente, dove la luce del sud filtra attraverso un’oscurità che riempie tutto.
Lode a Toni e alla Maple Death per avermi fatto fermare ad osservare il mio paese, a non passare oltre, a soffermarmi su di un album che si va a posizionare tra le uscite più interessanti di questo 2022.

Lucio Leonardi
80/100






MELVINS: Bad Moon Rising

Trentanove anni e trentaquattro album dopo siamo ancora al cospetto di sua maestà Roger Buzz Osborne. Il nostro king Buzzo non intende abdicare e continua imperterrito a macinare canzoni di anno in anno.
A onor del vero gli ultimi lavori avevano mostrato il fianco. La fatica del tempo sembrava aver accolto irrimediabilmente la band, che si esprimeva a fasi alterne in ogni uscita discografica. Ma poi ecco che arriva Bad Moon Rising, con la solita copertina scialba, (quanto mi mancano quelle degli esordi). Quel che c’è però all'interno del disco sono le canzoni. E che canzoni. 
Per prima cosa sono solo sei i pezzi, di cui l’opener di bene 14 minuti. Avete capito bene. Ed è un gran bel sentire. Never Say You’re Sorry è la solita mazzata melvins con super riffone e assoli da panico. 
Gli ottimo minuti di It Won’t or it Might aprono a melodie inaspettate, mentre il tiro rock di Hammering regala cinque minuti scanzonati e divertenti. Chiude la ruvida The Receiver and the Empire State. Fate largo. I maestri sono tornati.

Emiliano Sammarco
80/100 







OFF!: Free LSD

Gli OFF! Sono un'istituzione punk made in USA. Una delle poche band capaci ancora di incarnare lo spirito primigeno dei Black Flag e di vomitarlo all’interno delle loro schegge hardcore/punk. A differenza del passato, Keith Morris cambia la sezione ritmica (cavolo se si sente). Il risultato finale ne giova parecchio. Di certo non ci troviamo al cospetto di quello dichiarato in sede di presentazione. “A heavy punk industrial free jazz soundtrack recording”. Al di là delle facile etichette, siamo al cospetto del miglior album della band americana. Il marchio di fabbrica rimane. I suoni sono più moderni e meno caotici. Belli i pezzi in cui le chitarre rasentano lo stoner (Murder Corporation su tutti). Il free jazz è più nell’impostazione della batteria e in qualche finale o negli intermezzi che nell’ossatura del disco, che rimane saldamente quella di un album hardcore. 
Per ora a mani basse il miglior lavoro punk/hardcore  uscito quest’anno e di questo ne siamo sicuramente felicissimi. Bentornati. 

Emiliano Sammarco
80/100 






GONE COSMIC: Send For a Warning, The Future's Calling

Qualcuno vi dirà che sono una pizza tutte queste band che guardano al passato senza mai guardare avanti. Tutte uguali. Voi rispondetegli con il nuovo album dei Gone Cosmic, edito per Grand Hand Records. Un concentrato di heavy blues a voce femminile (Crimson Hand) a cui piace costruire dettami sonori dal retrogusto prog, elaborati e dal grande impatto (For Sabotage). 
Vi basterà far ascoltare ai miscredenti un pezzo da novanta come Envy Thrives o l’altrettanto stupenda Causeway per far cadere le ultime resistenze. E se nemmeno questo basterà, allora ci sarà sempre il nuovo album di qualche trapper allo sbaraglio da far ingurgitare ai poveri stolti. Per tutti gli altri c'è Send for a Warning, the Future’s Calling. Tanta roba. 




Emiliano Sammarco
80/100 






BRANT BJORK: Bougainvillea Suite

Il prolifico Brant Bjork torna in veste solista, dopo l’ottimo ritorno degli Stoner, con il qui presente Bougavillea Suite, sempre edito per la romana Heavy Psych Sounds.
Le coordinate non si spostano dal classico Bjork sound. Stoner caldo, abbondantemente irradiato dal blues, che squarcia i paesaggi desertici che ne indicano il marchio di provenienza. Le canzoni rispetto al suo predecessore sono sicuramente più ispirate. Bella la tastiera seventies di Broke the Spell. L’opener e primo singolo Trip of the Wine non mi avevano fatto gridare al miracolo, anche se sono comunque ottimi pezzi. Molto meglio le successive Good Bones e So They Say. Bello il secondo singolo Bread for Butter, ancora meglio Ya Dig, ma soprattutto la ballata percussiva Let’s Forget o l’ipnotico mantra finale Who Do You Love. Nulla di nuovo sotto il sole californiano, ma tutto fatto come sempre molto molto bene. 

Emiliano Sammarco
79/100






FAINTIN'GOATS: Failin'Gods

Vengono da Bologna e Benevento i due loschi individui che formano i Faintin'Goats, band che si definisce pure acid/Industrial/electro punk, a cui aggiungerei anche un bel noise, tanto per non farci mancare nulla.  In effetti la descrizione calza a pennello ai Faintin'Goats.
Editi dalla neonata Sac Recordings, i nostri sembrano una versione estrema dei Nine Inch Nails. Mi spiego meglio perché detta così è davvero troppo fuorviante. Immaginate cosa accadrebbe se i NIN jammassero con i Godflesh privati delle chitarre metal (ma non del loro nichilismo) il tutto riletto sotto strati martellanti di noise e catrame elettronico. 
Non c'è uno spiraglio di luce in un disco che fa proprio del buio il suo punto di forza. Failin'Gods è un flusso costante, che va assaporato nella sua interezza, senza snaturare alcuna traccia come un corpo a se stante. Failin'Gods è un pugno nello stomaco, una colata lavica che non lascia prigionieri. Ostico, ma vincente proprio per questo. 

Emiliano Sammarco
75/100






TY SEGALL: Hello, Hi

Avevamo davvero bisogno dell’ennesimo disco di Ty Segall, per di più in versione acustica? La domanda sorge spontanea alla vista di “Hello, Hi” soprattutto in virtù del fatto che Ty non si è di certo risparmiato anche quest’anno (addirittura in versione soundtrack maker per la colonna sonora di Whirlybird). Bene la risposta è altrettanto scontata e spontanea. Assolutamente si. Perché stare troppo tempo senza il buon Segall è un peccato mortale. 
Questa volta il nostro giullare fuzz garage mette da parte le fidate amiche distorsioni in favore di un approccio acustico che ben si sposa in contrapposizione allle follie sonore a cui ci ha abituati. Questo avviene soprattutto perché l’album una volta tanto è un disco “normale”. Fatto di ottime canzoni che attingono dai Beatles quanto dall’indie folk americano di ultima generazione. Giusto la titletrack si lascia andare in qualche piccola schitarrata distorta. Per il resto tanta buona musica. Sana e genuina. Meno pazza ma sempre di gran classe. 

Emiliano Sammarco
75/100 






NEBULA: Transmission from Mothership Earth 

Sesto album in 25 anni per i californiani Nebula. La band dell’ex Fu Manchu e mastermind Eddie Glass continua in modo più decisivo quanto già fatto ne precedente Holy Shit. L’album in questione si presenta come un perfetto mix tra i Nebula classici (To the Center) e il nuovo corso intrapreso con il precedente album. Subito dalle prime note ci viene fatto capire che tutto l’album sarà sostenuto da una buona dose di fuzz e voci effettate. Le canzoni si presentano ben strutturate, con un ottimo mix di tecnica e immediatezza che non rende per nulla fini a se stesse le trame di chitarra tessute da Glass. La titletrack presenta all’interno di essa una sezione che vira allo sludge, rimandendo pur sempre ancorata alla melodia, la quale riporta alla mente gruppi come gli Acid Bath e più in generale la scena di New Orleans. Altro pezzo degno di nota è “I Got So High”, che con i suoi richiami agli Electric Wizard, soprattutto per il suo sound sulfureo, è forse il pezzo che più si discosta stilisticamente dagli altri. Molto evocativa la traccia con cui i Nebula hanno deciso di chiudere il disco. “The Four Horsemen”, a discapito del nome, non ha nulla a che spartire con l’omonima traccia dei Metallica, ma, invece, grazie al suo stile western, ci immerge nella calura del deserto californiano. L’album scorre per tutti i suoi 38 minuti. Tempo che per il sottoscritto è sufficiente a regalare gioia agli amanti dello stoner e allo stesso tempo non risultare troppo noioso per chi si avvicina a queste sonorità per la prima volta. 

Cesare Castelli
75/100 






TRAUMA: Mea Culpa

In uscita per Seahorse Recordings. Mea Culpa è l'EP dei marchigiani Trauma, band alternativa che fa dei Tool di Undertow i suoi numi tutelari (vedi l'opener Muro). Lividi è più moderna e incalzante e il riff è da pogo sfrenato. Non Muore Mai torna al sound circolare e toolliano mentre Ira di Dio non avrebbe sfigurato in Faceless dei Godsmack. Chiude il cerchio Il Mio Ruolo Nella Band, altra ottima traccia che si insinua strisciando sotto pelle. 
Cinque brani sono ancora un po poco per capire se il futuro dei nostri sarà roseo, di sicuro le potenzialità ci sono tutte. Vedremo. Nel frattempo vi consiglio vivamente di dare una chance a Mea Culpa, ne varrà davvero la pena. 





Emiliano Sammarco
70/100






FREEDOM HAWK: Take All You Can

Sesto studio album per gli heavy rockers dell’east coast Freedom Hawk. 
Hard rock e proto metal si fondono in Take All You Can e lo fanno in modo vincente già dall’opener Age of the Idiot. Un pezzo fresco, dal refrain che si piazza subito in testa per non uscirne. Assoli ficcanti e tiro decisamente vincente. 
Ripple Music è una garanzia.
Ascoltate la title track. Un mix di ultimi Candlemass, Sabbath e quei suoni grezzi e asciutti di band del presente dal revival facile come i primi Kadavar e il gioco è fatto.
Se volete passare quarantacinque minuti leggeri e divertenti Take All You Can è il disco che fa per voi. 

Emiliano Sammarco
70/100 

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