DOOM |
Ricordo di aver recensito il primo album dei Bretus nel lontano 2012 su un’altra webzine e che da allora ho sempre seguito le gesta dei calabresi con interesse. Un po’ perché di band che suonano del classic Doom come fanno loro ne abbiamo tutti bisogno e un po’ perché essendo italiani ho sempre auspicato un palcoscenico di caratura internazionale per la band di Zagarus e soci.
Giunti al quarto album i Bretus ci propongono un sunto lodevole del sound malevolo ed ossianico con cui siamo cresciuti. Diciamoci la verità, band come Reverende Bizarre e Cathedral ci mancano eccome, ma non tiriamole in ballo oltremodo, anche in considerazione del fatto che in ogni recensione di un album dei Bretus li troverete citati ripetutamente e detto tra noi, la cosa inizia a diventare un po’ noiosa. Quel che preme a me farvi sapere è che lo stato di salute dei nostri è da invidia e che lo spirito con cui approcciano la materia è il medesimo con il quale hanno iniziato quasi due decadi orsono. Gli elementi per cui li abbiamo apprezzati ci sono tutti. Dai poderosi riffs sabbattiani alle atmosfere orrorifiche. Dai rallentamenti sludge alla pericolosa matrice Blues che pulsa dalle vene gonfie di catrame in questa manciata di canzoni davvero belle. La band si destreggia alla grande, con la chitarra di Ghenes sempre in primo piano e la sezione ritmica di Janos e Striges più quadrata che mai. Non c’è una canzone in particolare che vorrei menzionarvi (anche se pezzi come The Third Mystic Eye sono davvero tanta roba), quel che vorrei far emergere piuttosto è questa marea devastante che cresce simultaneamente durante l’ascolto, caricandosi di tutti i detriti, le scorie, la rabbia, l’oscurità di questo mondo sino ad esondare, deflagrando sino all’ultima nota di City of Frost, con la stessa veemenza e capacità distruttiva di cui è stata generata.
Giunti al quarto album i Bretus ci propongono un sunto lodevole del sound malevolo ed ossianico con cui siamo cresciuti. Diciamoci la verità, band come Reverende Bizarre e Cathedral ci mancano eccome, ma non tiriamole in ballo oltremodo, anche in considerazione del fatto che in ogni recensione di un album dei Bretus li troverete citati ripetutamente e detto tra noi, la cosa inizia a diventare un po’ noiosa. Quel che preme a me farvi sapere è che lo stato di salute dei nostri è da invidia e che lo spirito con cui approcciano la materia è il medesimo con il quale hanno iniziato quasi due decadi orsono. Gli elementi per cui li abbiamo apprezzati ci sono tutti. Dai poderosi riffs sabbattiani alle atmosfere orrorifiche. Dai rallentamenti sludge alla pericolosa matrice Blues che pulsa dalle vene gonfie di catrame in questa manciata di canzoni davvero belle. La band si destreggia alla grande, con la chitarra di Ghenes sempre in primo piano e la sezione ritmica di Janos e Striges più quadrata che mai. Non c’è una canzone in particolare che vorrei menzionarvi (anche se pezzi come The Third Mystic Eye sono davvero tanta roba), quel che vorrei far emergere piuttosto è questa marea devastante che cresce simultaneamente durante l’ascolto, caricandosi di tutti i detriti, le scorie, la rabbia, l’oscurità di questo mondo sino ad esondare, deflagrando sino all’ultima nota di City of Frost, con la stessa veemenza e capacità distruttiva di cui è stata generata.
Al di là di ogni discorso che gravita attorno a questo lavoro, Aion Tetra sa prendere l’ascoltatore e riportarlo agli albori, come una sacerdotessa illuminata farebbe con i suoi seguaci in un’ipnosi regressiva alle radici del doom.