L'edizione 2018 del Roadburn verrà sicuramente ricordata da tutti i presenti per un elemento assolutamente insolito per la kermesse olandese: il caldo.
Abituati al grigiore primaverile tipico di Tilburg, è stata una piacevole sorpresa trovarsi immersi in una quattro giorni soleggiatissimi, secondo i più portati direttamente dalle spiagge californiane dal San Diego Takeover, ovvero la pacifica invasione delle numerose band che costituiscono l'attuale scena psichedelica californiana (Earthless su tutti, ma anche Harsh Toke, Joy, Sacri Monti e via dicendo) e che ha di fatto animato le nuove apprezzabilissime location del festival. Ma andiamo per gradi.
Giovedì 19 aprile
WASTE OF SPACE ORCHESTRA: avvio d'eccezione quest'anno sul Main Stage con la perfomance esclusiva commissionata dall'organizzazione frutto della collaborazione tra i due nomi di punta dell'oscura psichedelia nordica, Oranssi Pazuzu e Dark Buddha Rising; visti i nomi coinvolti i risultati non potevano che rivelarsi all'altezza delle aspettative, con un'ensemble di dieci elementi che, grazie anche all'ausilio di suggestivi visuals, ha ipnotizzato la platea per un'ora abbondante di set dalle tinte nerissime. Ottima l'alchimia sul palco dei musicisti, perfettamente in grado di suonare come una vera e propria orchestra piuttosto che come una semplice accozzaglia di nomi noti, rischio sempre presente in questo tipo di situazioni.
EARTHLESS: nonostante i discordanti pareri sul loro ultimo lavoro (a me è piaciuto), il pubblico presente durante la loro esibizione è numerosissimo e si capisce perchè dal momento in cui la Stratocaster di Isaiah Mitchell inizia ad incendiare l'atmosfera. La dimensione live del trio traspare tutta e sarà ancora più evidente una volta raffrontata con tutte le numerose band accostabili alle loro sound presenti in quest'edizione.
HALLAS/EX EYE: breve parentesi in prima serata, riesco ad ascoltare solo il primo pezzo degli Hallas (grande presenza scenica grazie ad un make up e a costumi appropriatissimi alle loro pregevoli sonorità heavy prog) per dirigermi fortemente incuriosito dagli Ex Eye di Colin Stetson. La scelta non si è rivelata delle più sagge, dopo due brani gli statunitensi non mi convincono e preferisco guadagnare una buona posizione per uno degli eventi principali della giornata.
CULT OF LUNA & JULIE CHRISTMAS: annunciata come l'ultima esecuzione live del loro fortunato Mariner, gli svedesi e una delle voci simbolo del post metal americano hanno regalato un'esibizione impeccabile, forse talmente tanto da farla risultare a momenti fredda ed impersonale, dando quasi l'impressione di stare ascoltando l'album in cuffia piuttosto che dal vivo. Auspicavo una maggiore carica emozionale.
WEEDEATER: per quelli che sono ormai stati ribattezzati i "giovedì sera culturali del Roadburn" (l'anno scorso nello stesso slot c'erano i Bongzilla a fare tutto Gateway), tocca ai tre marcioni del South Carolina chiudere con la loro consueta raffinatezza la prima giornata con il loro cult God Luck and Good Speed. Dixie è preso benissimo, non risparmia i suoi soliti trucchetti con bottiglia di whiskey e affini ed ancora una volta riescono a mandare (positivamente) in vacca ricercatezza e sperimentazioni varie con un suono così primordiale che non può di certo lasciare indifferenti. Il prossimo anno però voglio i Buzzoven.
Venerdì 20 aprile
MOTORPSYCHO: noti soprattutto per essere gente poco prolissa, i norvegesi hanno piazzato in apertura di giornata un set da due ore incentrato principalmente sul materiale dei loro ultimi apprezzatissimi dischi. Impossibile districarsi dalle trame progressive puntellate dalle numerose divagazioni soniche dei tre, capaci di sospendere lo scorrere del tempo e di accompagnarci in un raffinatissimo viaggio psichedelico.
KIKAGAKU MOYO: principali rappresentanti dell'invasione nipponica di quest'edizione, la band giapponese è stata personalmente parlando la mia principale sorpresa di quest'anno. Partito con una semplice e neanche troppo convinta curiosità, sono rimasto in mezzo ad un pubblico praticamente incantato per tutta la durata del loro set; una band che sicuramente risulta molto più apprezzabile dal vivo, musicisti eccezionali e seriamenti appassionati alla loro arte.
CONVERGE: sarà per la decisa sterzata a livello di sonorità. sarà perchè questi set autocelebrativi a Bannon non piacciono granchè ("prima ed ultima volta che lo facciamo", dice ad inizio concerto), la perfomance integrale della pietra miliare You Fail Me del quartetto statunitense non mi ha particolarmente colpito. L'impressione è quella del compitino fatto a casa, eseguito solo perchè richiesto, tant'è che alla fine viene infilata anche Wolverine Blues degli Entombed, quasi a volersi sfogare un po'.
EARTHLESS+DAMO SUZUKI: primo concerto visto nel nuovo palco del Koepelhal (fantastico, con un'area relax all'esterno che è puro godimento) per un momento d'eccezione, con gli artist in residence impegnati in una jam di sessanta minuti con uno dei protagonisti storici del krautrock con i suoi Can. L'ennesimo apice psych di questo Roadburn, con gli Earthless a dimostrare di non essere secondi a nessuno quando si tratto di improvvisare e Damo Suzuki ad inserirsi perfettamente nell'andamento motorik dettato dalla band di San Diego. Pubblico stregato.
GODFLESH: confesso di non essere mai riuscito ad apprezzare le atmosfere industrial dei Godflesh e di aver voluto assistere al loro set nella speranza di riuscire finalmente a decifrarli. Senza successo, evidentemente non sono proprio la mia "tazza di tè".
Sabato 21 aprile
BELL WITCH: il sole che circonda il Koepelhal alle 14 può poco contro il funereo sound del duo americano, che con l'esecuzione integrale del suo ultimo grandioso Mirror Reaper ammanta i cuori di tutti i presenti in un gelo impenetrabile. Sembra quasi di assistere ad una funzione religiosa, vista la sacralità con cui il pubblico assiste al concerto. Sofferenza estrema, ma l'angelica voce di Erik Moggridge riesce anche a far accettare con serenità l'inevitabilità della morte. Il momento più intenso dell'intero festival.
PANOPTICON: a confronto con i Bell Witch sembrano degli allegroni, ma il loro black metal dalle tinte folk colpisce favorevolmente, rivelandosi per me che non avevo mai avuto l'occasione di ascoltarli una piacevole rivelazione.
VOLCANO: atmosfere alla Santana? Mario Rubacalba degli Earthless alle percussioni? L'ideale per riprendersi in maniera positiva dal freddo esistenziale dei Bell Witch. Band formata da vari musicisti militanti nella scena californiana, suonano una psichedelia latina altamente contagiosa, in grado di divertire e far ballare tutti i presenti. Attendo con curiosità il loro album di debutto, visto che è solo il loro secondo concerto dal vivo e promettono davvero bene.
BORIS & STEPHEN O'MALLEY: esecuzione integrale di Absolutego, caposaldo del drone da parte di chi questo genere l'ha praticamente portato alla ribalta. Muro di amplificatori e perfomance altamente evocativa, ma forse leggermente al di sotto delle aspettative come intensità sul palco.
THE HEADS: incuriosito dalle altisonanti descrizioni delle loro precedenti esibizioni al festival, la band inglese offre un live di tutto rispetto che colpisce soprattutto per l'assoluta mancanza di pause. Un ottovolante lisergico di oltre sessanta minuti, che lascia tutti esausti e felicemente soddisfatti. Dei veri cavalli di razza.
SACRI MONTI: complice l'ottima impressione ricavata dal loro album di debutto, la band californiana si conferma come eccellente interprete di un coinvolgentissimo hard prog, qualificandosi come la band più interessante del San Diego Takeover, con la doverosa eccezione degli Earthless, la cui terza e finale esibizione è l'unica valida ragione per abbandonare la Green Room anzitempo in favore del Main Stage.
EARTHLESS+KIKAGAKU MOYO: non credo di peccare per iperbole nel ritenere questo IL momento (o almeno IL MIO momento) di questa edizione. East meets West Jam, un titolo che già dice tutto, una collusione amichevole tra due modi completamente diversi di interpretare la psichedelia in grado di generare un risultato assolutamente sorprendente per la naturalezza con cui avviene. Difficilmente le parole potranno rendere giustizia a ciò a cui si è assistito, con i musicisti delle due band che riescono nel non facile compito di funzionare effettivamente come un'unità perfettamente coesa, priva di protagonismi e animata fondamentalmente da uno sconfinato amore per la musica. L'ABC di come andrebbe fatta ogni jam degna di questo nome, speriamo di poterla presto riascoltare su un qualsiasi supporto in una qualità meritevole.
Domenica 22 aprile - Afterburner
VANANGANDR:SOL AN VARMA, BELL WITCH, WATTER: nonostante la domenica sia generalmente impegnativa in termini di stanchezza fisica dopo tre giorni di festival, rispetto agli scorsi anni l'Afterburner è molto più rilassante come impegni personali. Cinque minuti cinque di black metal islandese, quindici minuti del secondo set dei Bell Witch (ho scelto la vita) e mezz'ora dei Watter, decisamente più convincenti sul palco che su disco, per un inizio giornata di totale relax.
WIEGEDOOD: incuriosito dalla crescenta fama delal band belga, avevo da tempo programmato la loro esibizione e il trio mi ricompensa con un'epifania simile a quella vissuta l'anno scorso durante i Wolves in the Throne Room, con sonorità sicuramente lontane anni luce dai miei ascolti abituali ma talmente ben eseguite, così elegantemente brutali, con brevi intermezzi melodici sapientemente dosati da incollarmi al Main Stage. Pregevoli.
GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR: dopo aver sperimentato attraverso il doppio vetro della sala fumatori dello 013 le insane frequenze basse degli Zonal con Moor Mother, la band canadese era per me la ciliegina ideale per concludere questi quattro giorni. Cena veloce, un paio di birre e un comodo posto seduto per godere senza intoppi delle due ore del loro set. L'unica cosa che mi ha impedito di gustarmeli totalmente ad occhi chiusi erano gli splendidi visuals proiettati alle loro spalle, amalgamati alla perfezione con una musica che è forse riduttivo incasellare nella generica definizione di post rock. QUi siamo più sui versanti di moderna musica da camera, maestosa e declinata con strumentazioni moderne, ma che non sfigurerebbe assolutamente in un teatro dell'opera, che sembra invece essere una cornice più adatta rispetto ad un canonico live club. Emotivamente parlando, è stato l'equivalente concertistico di una seduta psicoterapeutica, con un flusso costante di immagini mentali generati dalla loro musica che mi hanno lasciato quasi in lacrime. Sarà anche per il giusto setting, ma questo sarà uno di quei live che rimarranno impressi per sempre nella mia memoria.
Grazie ancora una volta Roadburn. Ci si rivede l'anno prossimo.