Nella tarda serata di venerdì a Ravenna e ad Atene è stato avvertito un movimento tellurico che ha scosso le fondamenta delle due zone colpite: non si è trattato di un sisma sprigionato dalle viscere della Terra, ma di un raduno musicale chiamato Sonic Ritual Fest, organizzato in contemporanea nelle due location dall'immensa Heavy Psych Records. Sotto il Partenone le band di punta erano Duel e Yawning Man, mentre il piatto più gustoso è toccato alla Romagna, con l'esibizione di alcune tra le band più esplosive della scena: Ecstatic Vision, Giobia e The Cosmic Dead. Di seguito la cronaca degli eventi e il bilancio delle vittime di questo terremoto sonoro.
Fuori dal Bronson, locale sperduto tra quattro case nella campagna ravennate, c’è un bar con annesso maxi parcheggio in cui, con la bella stagione, i vecchi giocano a carte seduti fuori ai tavolini di plastica e bestemmiano in romagnolo, mentre i partecipanti a serate e concerti cominciano a fare il pieno alcolico a prezzi popolari. In passato ho già avuto i miei guai con l’accoppiata drink & drive, quindi salto a piè pari il bar e mi infilo in un Bronson desolatamente semivuoto, proprio nel momento in cui gli Ecstatic Vision iniziano a suonare. Mentre là fuori c’è chi preferisce stare al bancone a bere un gin lemon o una Heineken a 3 euro, io e pochi die hard fans ci godiamo in perfetta solitudine una performance monstre da parte dei quattro di Philadelphia, che fin dalla tiratissima You got it or you don’t danno il massimo anche di fronte ai pochi spettatori presenti. Raw Rock Fury è uscito da poco più di un mese e il set degli Ecstatic Vision è ovviamente incentrato sui nuovi pezzi, che dal vivo acquistano un tiro e un’intensità sonora a dir poco dirompente. Doug Sabolik, il minaccioso frontman con baffi a manubrio e lunga treccia da pellerossa, sbraita al microfono e al megafono, suona l’armonica, balla sguaiato nei momenti strumentali, imbraccia la chitarra per liberarne i demoni attraverso mantra sonori intrisi di fuzz e wah-wah. Il sassofonista/flautista ebbro e sudaticcio lascia mezzo polmone nelle improvvisazioni di sax sui tappeti ritmici in puro motorik-style messi in campo dalla sezione ritmica e il fantasma dei primi Hawkwind rivive in Twinkling Eye, dilatata a dismisura per almeno 5 minuti in più rispetto al disco. La band ama definire il proprio sound come “Troglodyte rock” e in effetti gli Ecstatic Vision regalano una performance muscolare, intrisa di umori primordiali. La loro formula di psych-krautrock sciamanico sancisce un ritorno alle origini della crudezza del rock’n’roll ma allo stesso tempo proietta su altri piani astrali, in una dimensione spazio-temporale che traghetta dal Pleistocene agli anelli di Saturno. Visione (ed esperienza) estatica, di nome e di fatto.
Dalla ruvidezza sonora ed estetica dei filibustieri americani all'inappuntabile eleganza dei milanesi Giobia, agghindati con la divisa d'ordinanza del perfetto occult-rocker: pantaloni di pelle aderenti, stivaletti, maglietta ben stirata, trucco e caschetto perfetto per la tastierista e lunghi capelli puliti per il cantante e chitarrista. Il live inizia con un set luci ridotto al minimo, tra nuvole di fumo denso per creare l'opportuna atmosfera. Atmosfera che purtroppo resta puro artificio estetico e mai si integra con la sostanza musicale: la band resta nell'oscurità, distante, troppo intenta a tessere trame psichedeliche e poco incline a creare un contatto visivo ed emozionale con gli spettatori. Tra riverberi, sitar e tastiere il sound dei quattro italani risulta oltremodo sovraccarico di componenti e di eccessiva pomposità, finendo quasi per sembrare autoreferenziale e un tantino presuntuoso. La voce costantemente effettata parla una lingua incomprensibile, la musica sorvola i cieli lisergici della Londra del 1967, muta in psichedelia arabeggiante e accarezza liturgie hindu, riempie lo spazio ma non trasporta mai nel suo mondo. A differenza degli Ecstatic Vision, la band milanese rende molto più su album che dal vivo e, nonostante l’incontestabile qualità dei brani, a metà set la concentrazione cala e scappano un paio di sbadigli. I Giobia sono sicuramente capaci di mettere l’accento sulla natura polimorfa e caleidoscopica della musica psichedelica, ma sul palco esaltano fin troppo la perizia quasi enciclopedica dell’esecuzione e latitano nel condividerne l'essenza basilare. Riprendiamo fiato per i morti cosmici, ce ne sarà bisogno.
Salgono sul palco i quattro scozzesi, imbracciano i loro strumenti e inizia l’incubo. Un disco per bambini suonato al contrario in una casa isolata, mentre fuori dalla finestra, oltre i campi abbandonati, si forma una nube nera: lo sciame incede sempre più minaccioso, il rumore si fa sempre più incombente e insopportabile, investe la casa, ne fa vibrare le fondamenta e finalmente infrange i vetri e spazza via la vita al suo interno. Ecco cosa evoca il primo brano dei The Cosmic Dead, un’intro apocalittica e disarmonica tra Walt Disney, Ash Ra Tempel e Sunno))). Qualcuno dovrà spiegare, un giorno, perché gli scozzesi hanno questa ossessione per le alte frequenze: dai Jesus And Mary Chain ai Mogwai, sembra quasi che godano nel distruggere il sistema uditivo dell’ascoltatore, portando le lucine del mixer costantemente a un inumano, profondo rosso. Impossibile (e inutile) riconoscere i brani suonati, il volume nei momenti più violenti è assordante e la potenza di fuoco messa in campo annichilisce anche fisicamente. I quattro combattono una guerra invisibile sul palco, dimenandosi e contorcendosi, accasciandosi sugli strumenti, capitolando sotto il cataclisma creato. Siamo ai limiti della performance di arte contemporanea, caratterizzata da una costante conflittualità e deteriorazione fisica per chi la produce e per i fortunati che la subiscono. I Cosmic Dead portano all’estremo il concetto di allucinazione sonora stratificandola attraverso un wall of sound compatto e divagazioni anarco-sperimentali, svelando spiragli di follia e spalancando le porte verso la catarsi corporea e mentale. Il genio della band sta nel saper gestire questa materia sonora ribollente, plasmandola attraverso un profluvio di distorsioni, urla cavernicole, impennate modulari dall’iperspazio e una sezione ritmica nevrotica e tribaleggiante. É la dissezione chirurgica del suono e del tempo che scaraventa fino a 14 miliardi di anni fa, quando l’universo ebbe inizio tra esplosioni e catastrofi nucleari.
Il rituale sonico - mai nome di festival è stato più appropriato - viene concluso quando i due chitarristi appendono le chitarre ai fari sulla struttura luci che troneggia sulle loro teste, elevando i loro strumenti a idoli da venerare per il pubblico presente, per poi continuare l'ultimo brano picchiando con furore primitivo su due tamburi assieme a batterista e polistrumentista dal look cheguevariano. Le luci si riaccendono, si torna alla realtà, si percepiscono gli altri esseri umani, il locale attorno, il silenzio. La performance dei Cosmic Dead sicuramente si fonda sulla concretezza del suono e mette a dura prova le membra, ma è proprio nella violenza estrema che si innesca un processo di elevazione, un annullamento del corpo che viene contaminato e diventa tutt’uno con le pulsazioni sonore. La disarticolazione e il rapimento dei sensi verso il punto di rottura. Dall’incubo all’estasi.