Un’altra edizione del Roadburn è finita: lasciare Tilburg dopo averne fatto la propria casa per cinque giorni è sempre una pugnalata al cuore, mitigata dall’unica certezza che l’anno successivo sarà possibile replicare ancora una volta l’esperienza.
Lasciamo perdere inutili discussioni su quanto i cartelloni di altri festival europei del "settore" fossero migliori quest’anno, l’esperienza unica del Roadburn non dipende solo da quello: l’aria che si respira alla manifestazione olandese non ha pari e ogni concerto visto rappresenta sempre un’eccellenza di qualità artistica e professionale, che si tratti del main stage come dei palchi più piccoli. Un festival che vede la presenza di artisti così diversi tra loro è senza alcun dubbio un tesoro da preservare e non c’è che da essere grati per l’enorme varietà di suoni che è possibile sperimentare. I migliori concerti del Roadburn poi sono sempre quelli inaspettati e che permettono di allargare i propri orizzonti musicali. Inutile dire poi che, visti gli oltri 100 eventi in programma, l’esperienza di ogni spettatore è assolutamente personale e unica, giusto per aggiungere un ulteriore utile tassello alla comprensione della grandezza di questo appuntamento.
Fatte le doverose premesse, passo appunto a raccontarvi il mio Roadburn 2017, soffermandomi ovviamente sulle esibizioni cui ho assistito. I vari buchi temporali vanno ovviamente colmati con amichevoli chiaccherate, birrette, junk food, visite al merchandise, ricerche di prese di corrente per ricaricare dispositivi (spoiler: fallimentari nella stragrande maggioranza dei casi, visto il poco tempo a disposizione) e altri intermezzi assortiti su cui non mi dilungo.
Giovedì 20 aprile
CRIPPLED BLACK PHOENIX: responsabili dell'inaugurazione del main stage quest’anno, sono stati impeccabili sotto il profilo dell’esecuzione, ma resta l’impressione avuta su disco che il loro materiale più recente abbia perso parecchio in termini di pura godibilità rispetto agli esordi. Una complessità stilistica che ha spesso come unico effetto quello di risultare soporifera.
CRIPPLED BLACK PHOENIX - foto di Jostijn Ligtvoet |
SUBROSA: speravo che dal vivo riuscissero a convincermi come non mi era mai successo con i loro dischi, ma niente. Devo ancora avere la mia epifania Subrosa, evidentemente.
UNEARTHLY TRANCE: potenti e aggressivi, una Green Room gremitissima per la loro esibizione. Complice proprio tale affollamento ho visto solo metà del loro set, ma, che dire, tanta passione e concretezza.
WOLVES IN THE THRONE ROOM: dopo essere entrato con la convinzione di reggere solo dieci minuti, sono rimasto incantato dalla loro esibizione; black metal di altissimo livello eseguito con una precisione ed una pulizia impeccabili. Fosse durato un’altra ora sarei rimasto a godermi ogni secondo.
WOLVES IN THE THRONE ROOM - foto di Niels Vinck |
COVEN: chiaramente l’esibizione più attesa di questa edizione. Ho resistito cinque pezzi. Incolpevole Jinx Dawson, in realtà ancora dotata di una voce sorprendentemente bella; purtroppo la band che l’accompagna sembra un’accozzaglia di gente messa su alla bell’e meglio (e con tutta probabilià è proprio così). Lo stupro di Wicked Woman è stato il momento in cui ho deciso di andare a prendermi una birra. All'aria aperta.
COVEN - foto di Paul Verhagen |
DEAFHEAVEN: ok, il cantante ha delle movenze che potrebbero facilmente risultare irritanti e credo che sia fondamentalmente il suo aspetto esteriore a procurare alla band circa il 95% dei loro detrattori. Mossette a parte, George Clarke è dotato innegabilmente una grande voce e il resto della band suona precisa come un metronomo, sembra quasi di ascoltarli su disco. E la cover di Cody dei Mogwai mi ha procurato dei brividi d’estasi.
DEAFHEAVEN - foto di Niels Vinck |
BONGZILLA: perchè è sempre importante ricordare che assieme a Holy Mountain, Blues for the Red Sun e The Action is Go c’è anche Gateway tra i dischi fondamentali dello stoner e loro l'hanno eseguito tutto. Semplici e diretti come un camion lanciato a tutta velocità; sono saliti, hanno acceso gli amplificatori, messo il volume su 11 e via. Con in più tutto l’amore che si può avere di fronte alla faccia tosta di uno che dice “la prossima canzone parla di marijuana”.
Venerdì 21 aprile
OATHBREAKER: Caro Tanghe è indubbiamente una delle migliori interpreti femminili attualmente presenti sulla scena musicale. Non so cosa sarebbero gli Oathbreaker senza di lei, protagonista totale sul palco, una voce dotata di una quantità di registri così diversi tra loro da lasciare sbalorditi tutti i presenti in sala. Eccezionale.
OATHBREAKER - foto di Niels Vinck |
BIG BUSINESS: che batterista incredibile è Coady Willis? Un tiro devastante, cinquanta minuti ininterrotti di assalto sonoro, con una scaletta composta prevalentemente dai brani dell’ultimo Command Your Weather, chiaramente.
BIG BUSINESS - foto di Niels Vinck |
WHORES.: è stato bello come me l’aspettavo, forse di più, un’esplosione di cattiveria e noise. Maestri assoluti nel dare forma sonora a tutto il nichilismo espresso nei loro testi, con la non trascurabile differenza che dal vivo tutto ciò viene ovviamente reso a dei volumi davvero assassini. Sono riusciti anche a bruciare una testata, sostituita nel giro di uno schiocco di dita dall’eccezionale staff del festival.
BARONESS: considerato che ho anche apprezzato il nuovo corso inaugurato con Purple, mi rattrista dire che il live dei Baroness è stato deludente sotto ogni punto di vista: John Dyer Baizley non ha evidentemente le doti vocali necessarie per ricreare dal vivo le prestazioni del disco, la scaletta conteneva un sacco dei brani dei primi due album che con la nuova formazione non riescono a rendere e come se non bastasse sembravano anche suonare due tacche sotto rispetto al volume generale. Da Rays on Pinion in poi la cosa è andata migliorando, ma proprio leggermente.
BARONESS - foto di Niels Vinck |
PERTURBATOR: Het Patronaat strapieno per il nome di punta dell’attuale scena synthwave (o retrowave, se preferite). Una chiusura di giornata perfetta, un’esibizione coinvolgente oltre ogni aspettativa, nonostante vari problemi tecnici. Tutto ciò nello stesso festival dove il giorno prima avevi chiuso con i Bongzilla, capite?
PERTURBATOR - foto di Niels Vinck |
Sabato 22 aprile
ORANSSI PAZUZU: non sono mai stato un loro estimatore, ma devo ammettere che hanno fornito un’esibizione veramente impressionante. Insieme a WITTR, Oathbreaker e Deafheaven sono stati l’ennesima declinazione moderna di black metal a guadagnarsi il mio parere positivo in questa edizione.
ORANSSI PAZUZU - foto di Niels Vinck |
WARNING: un po’ ingessati sul palco, ma cinque minuti di Watching from a Distance sono bastati per affondarmi emotivamente. Così, per evitare di scoppiare a piangere, ho preferito andare nella Green Room.
SLOMATICS: uno dei miei appuntamenti irrinunciabili, considerato quanto ho amato i loro ultimi lavori (Estron e Future Echo Returns). Due chitarristi che macinano riff con grossi amplificatori sfruttati a piena potenza e un batterista che canta come se fosse sul picco di una montagna: la chiusura con Jon Davis dei Conan poi è stata solo la ciliegina sulla torta di quaranta minuti in cui avevano praticamente annichilito l’intera Green Room.
TRANS AM: la dimostrazione pratica di come l’etichetta post rock racchiuda in sè sonorità così diverse da non sapere mai cosa aspettarsi. I Trans Am sono un genere a parte, un miscuglio di influenze kraut, elettronica, ambient e uso ragionato del vocoder che ha portato questo insano terzetto a festeggiare silenziosamente quasi trent’anni di carriera. Eccezionali i brani del nuovo California Hotel, per quanto mi riguarda è stato IL concerto di questo Roadburn. Oh, e vogliamo parlare del bassista che ad un certo punto suonava con un enorme pacchetto di patatine tra le braccia?
SERPENT VENOM: complice anche il non aver mai assistito ad un live all’Extase in due edizioni, ho deciso di approcciarmi al doom tradizionale senza pretese della band inglese. Onesti, per carità, ma dopo Warning e Slomatics è un po’ come iniziare con il whisky e passare alla birra.
CARPENTER BRUT: esatto, non solo Perturbator, ma anche Carpenter Brut. Chitarra, batteria e synth lanciati in colonne sonore anni ‘80 a velocità folli. Unico neo: se già solitamente la Green Room è stata spesso troppo affollata per godersi come si deve un live, in questo caso è stata davvero invivibile.
Domenica 23 aprile
PALLBEARER: se nutrite dubbi sulla loro validità, vi consiglio di provare a vederli dal vivo. Monumentale è sicuramente il miglior aggettivo per riassumere il loro set, perfetto sotto ogni punto di vista e ideale per capire tutto l’hype che circonda il loro nome. Sicuramente una delle migliori (se non la migliore) band in ambito doom degli ultimi dieci anni.
PALLBEARER - foto di Niels Vinck |
GONG: pur essendo particolarmente scettico su una formazione che ormai di originale ha solo il nome, sono stato felice di essere stato trascinato al Patronaat per una delle tante sorprese di questa edizione. Ottima performance, grande interazione col pubblico e la dimostrazione che lo spirito di Canterbury è ancora vivo.
GONG - foto di Niels Vinck |
ULVER: difficile resistere alla tentazione di testimoniare in prima persona alla presentazione dell’ennesimo album della discordia, The Assassination of Julius Caesar. I norvegesi non mi hanno fatto pentire della decisione, ipnotizzandomi in cinque minuti con un synthpop così qualitativamente pregevole da far vergognare i Depeche Mode. Considerando l’alto numero di detrattori pentiti, capirete che forse è il caso di non saltare l’appuntamento italiano del 3 giugno. Da antologia il tipo che urla “Play some black metal!” con Kristoffer Rygg che gli risponde “Shut the fuck up, we don’t play black metal anymore!”
ULVER - foto di Jostijn Ligtvoet |
PONTIAK: come può finire un concerto dei tre fratelli barbuti dalle montagne della Virginia che iniziano il set con Ghosts? Con te felice, ecco come. Un'esibizione altamente coinvolgente, che non ha conosciuto cali di intensità. In un mondo ideale Tomorrow is Forgetting sarebbe in heavy rotation su ogni radio del globo terracqueo.
RADAR MEN FROM THE MOON: nonostante li avessi già visti ed apprezzati quattro anni fa nella loro formazione originaria a tre, ero curioso di sentire come l’introduzione del synth avesse modificato il loro impatto dal vivo. Constatata una prevedibile maggiore propensione alla sperimentazione, ho con piacere constatato che gli olandesi riescono comunque ad essere devastanti, mantra sonici a volumi esagerati, ripetuti in maniera così ossessiva da sconvolgere le sinapsi di ogni spettatore presente. Il momento lisergico che ancora mancava al mio Roadburn 2017.
Prossimo appuntamento: 19-22 aprile 2018.