mercoledì 15 maggio 2019

ROADBURN FESTIVAL 2019: Live Report


 

Prima di iniziare questo live report vorrei mettere in chiaro quattro cose:
  • Si è trattato del mio primo (e sicuramente non ultimo) Roadburn festival, le aspettative erano alte e la carica era papabile da due mesi prima dell’effettivo viaggio verso Eindhoven.
  •  Ho sempre visto il Roadburn, da fuori, come un vero e proprio paese dei balocchi per chiunque bazzicasse il tipo di generi proposti, e dopo i quattro giorni e mezzo passati a Tilburg posso smentire la mia aspettativa. È stato molto di più.
  • Non voglio parlare dei concerti analizzandoli nel dettaglio delle setlist e parlando di ogni canzone. Sono del parere che se un live merita, lo fa per intero. Quindi non aspettatevi, a parte dovute menzioni, un’analisi pezzo per pezzo, ma dell’intero set.
  • Per dovere di cronaca, devo ammettere che alcune sensazioni potrebbero essere state ampliate dall’uso di sostanze che in Italia sono considerate stupefacenti, ma mi raccomando: "La droga fa male, non drogatevi e restate a scuola” – Al Cisneros.

Mercoledì 10 Aprile
Il viaggio vero e proprio inizia la mattinata del 10 Aprile all’aeroporto di Pisa, punto di incontro fissato da me e Luca, dove abbiamo preso l’aereo per Eindhoven.
La giornata pre-festival procede abbastanza tranquillamente, montiamo le tende (incoscienti del freddo che ci aspetterà la notte), incontriamo amici italiani (di cui io personalmente faccio la conoscenza per la prima volta), ci facciamo un giro per Tilburg in maniera da memorizzare i posti da visitare e che ci vedranno spesso al loro interno, spesso per prendere un caffè et similia. Dopo aver sostenuto che questo sarebbe stato il mio primo festival europeo vero e proprio, mi è rimasta impressa una risposta: “Hai scelto il miglior posto possibile da cui cominciare”.
La serata di apertura ammetto di non essermela goduta al 100%, complici la stanchezza e il sonno dovuti al viaggio e alla levataccia della mattina. Riesco ad ascoltare solo parte del set dei Great Grief, gruppo islandese i cui membri fanno anche parte dei più famosi Une Misère, e ne rimango comunque piacevolmente colpito. Hardcore moderno venato di melodico, ma non scadendo comunque nella pacchianità e nella scontatezza della stragrande maggioranza di gruppi del genere.
Detto ciò, si va a dormire e ad affrontare il freddo notturno abbastanza inaspettato.

Giovedì 11 Aprile
Dopo aver fatto colazione agli stand presenti nel Campsite, ci si fionda subito nella zona festival dove i concerti hanno inizio nel primo pomeriggio, e si inizia subito nell’Hall of Fame, il palco più piccolo ed intimo dell’intero festival. Ciò prevede la prima divisione del gruppo, in quanto ci sono talmente tanti gruppi di grande spessore che il mal di testa per la scelta ne fa da padrone.

Roadburn 2019


Io e la mia ragazza iniziamo dai Bismuth, duo funeral doom inglese che da poco ha visto l’uscita del proprio full length The Slow Dying of the Great Barrier Reef, disco molto apprezzato dal sottoscritto. Subito l’atmosfera si fa cupa. Il gruppo, formato solo da basso e batteria, colpisce subito l’audience con un sound granitico e gigantesco, che non fa prigionieri. Le dolci clean vocals e il potente growl della cantante creano un incredibile dualismo che ipnotizza i presenti dall’inizio alla fine del set, durato circa 40 minuti. Sarà stato il fomento e l’atmosfera del Roadburn, ma il duo inglese è sicuramente uno dei molti highlights del festival. Insomma, la maniera ideale per iniziare.

Bismuth


Ancora storditi dall’impatto dei Bismuth, ci dirigiamo verso la Green Room, che dopo mezz’ora vede protagonista Dehn Sora e il primo dei suoi progetti presenti nella line-up, Treha Sektori. Ammetto di esserci andato per pura curiosità, non avendo ascoltato molto prima, e ne sono uscito piacevolmente sorpreso. Si tratta di un live dark ambient, arricchito da delle visuals prodotte e spesso recitate dallo stesso Sora, che si sposano perfettamente con la proposta musicale. I bassi colpiscono l’ascoltatore direttamente nello stomaco, inizia a vibrare tutto e sembra di essersi spostati in un altro mondo, complici il silenzio e la meditazione vera e propria che accompagnano l’intero set.

Treha Sektori


Non si esce da questo stato, e un po’ tristi per esserci persi il primo set dei Thou, inizia a martoriarci le orecchie (in senso positivo) Kristin Hayter, in arte Lingua Ignota. Il suo disco All Bitches Die, risalente al 2017, ha accompagnato parecchi dei miei pomeriggi e notti insonni con la sua schizofrenia e il suo vero e proprio assalto sonoro. Come al solito si posiziona al centro dell’audience, con il pubblico che si mette a cerchio e assiste alla sua performance, perché si parla di una vera e propria performance. Da subito ci si rende conto di non star guardando un normale live noise, ma molto di più. I momenti dolci si accompagnano ad urla che squarciano completamente le orecchie dei testimoni. Si tratta di un’artista capace di passare da un canto lirico vero e proprio ad uno scream che attacca l’ascoltatore e ne ritorce le budella. Si passa da una cover della celebre Jolene di Dolly Parton, ad autoinfliggersi colpi di quelle che sono vere e proprie lampade che Lingua Ignota porta sempre avvolte al proprio collo o ai propri arti. Per utilizzare una sola parola, andrei verso intensa. Si è trattata sicuramente, per quanto mi riguarda, della proposta proprio più intensa dell’intero festival.

Lingua Ignota


Dopo aver raccolto i cocci di ciò che un tempo era la nostra coscienza, ci spostiamo verso il De Koepelhal. Si tratta del secondo palco per grandezza, dove assistiamo al live di Emma Ruth Rundle, che presenta il suo On Dark Horses, uscito lo scorso anno. C’è poco da dire, il live è stato ben curato e interessante, i pezzi hanno colpito l’audience e la sua voce iper personale ha decisamente fatto centro. Si è trattato di un bel concerto sicuramente, ma le orecchie ancora gravitavano verso la Green Room, dove abbiamo visto Lingua Ignota.

Emma Ruth Rundle


Ci spostiamo poco prima della fine del concerto verso la Hall of Fame, dove suoneranno a breve i Crowhurst, progetto di Jay Gambit che presenta il nuovo disco, III. Bene, probabilmente questa è l’unica nota negativa dell’intero festival. Complici il fatto che erano state perse delle pedaliere, complici l’ansia e un po’ di riverenza di fronte al pubblico del Roadburn, si è trattata a mio modesto parere dell’esibizione meno convincente tra quelle che ho visto nel weekend olandese. Attacchi spesso sbagliati, suoni un po’ ni e concerto iniziato tardi, salvati solo in parte dalla comicità e dal non prendersi sul serio del frontman Jay Gambit. I Crowhurst (il cui live successivo, in collaborazione con i Gnaw Their Tongues, pare essere stato molto più incisivo e coinvolgente di questo) si aggiudicano il titolo di “Non sono musicisti professionisti, sono presi dalla strada”.
 
Dopo il concerto decidiamo di prenderci una pausa e di mangiare qualcosa, prima di essere colpiti dall’ultimo live della giornata. La scelta è onestamente parecchio difficile, bisogna vedere solo uno tra i Mono che suonano con l’orchestra il loro capolavoro (a mio parere) Hymn to the Immortal Wind, e la poliedrica Margaret Chardiet, in arte Pharmakon. Ci avevamo già pensato in precedenza, come per molte delle sovrapposizioni presenti sul bill, e abbiamo deciso di optare a favore dell’harsh noise (tanto già che c’eravamo, quella giornata era dedicata principalmente a farci male) a discapito della dolcezza dei giapponesi Mono.
Bene, pronti via, ci posizioniamo di fronte al palco e davanti a noi si presenta una ragazza bionda dall’aspetto innocuo, che appena attacca inizia a farci chiedere cosa abbiamo fatto di male per vivere. Il progetto Pharmakon ci ha distrutti internamente dall’inizio alla fine, la presenza scenica (cosa non scontata per un live del genere) è stata enorme, e i volumi erano esagerati (nel senso buono). Ci ha spaesato da subito, non sapevamo più dove fossimo e ha colpito tutto ciò che c’era da colpire. Non mi dilungo troppo su un live harsh noise del genere, che è più da vivere che da raccontare. Non è stato un normale concerto, ma una vera e propria esperienza. Distrutti internamente e senza parole, decidiamo mestamente di andare a dormire.

Pharmakon



Venerdì 12 Aprile
 
Ancora carichi per il primo giorno, ci si sveglia moderatamente presto e come al solito si va nella zona festival. La nostra giornata concertistica inizierà alle 14.40, quindi facciamo con calma e pranziamo. Ho già parlato dell’atmosfera, ma oggi, dato l’aver sorpassato il momento di stupore della prima volta, ci godiamo a pieno tutto il mondo Roadburn. Diamo un’occhiata alle opere d’arte di Emma Ruth Rundle e di Marissa Nadler, per poi affacciarci nella sala della Full Bleed Exhibition, dove altri artisti di calibro internazionale (sempre legati al genere) esibiscono i propri lavori, tra i quali troviamo Jacob Bannon, Richey Beckett e Thomas Hopper.
Carichi per l’inizio, ci dirigiamo verso il De Koepelhal e ci mettiamo in prima fila per l’esibizione dei Throane, che dicono sarà qualcosa di molto diverso dalla norma. Infatti da subito ci colpisce un grande pugnale posizionato al centro di un cerchio all’interno del quale suonerà la band. Pronti-via, siamo testimoni di un live carico e psichedelico grazie al Black Metal molto variegato del gruppo francese, capitanato dal cantante e visual artist Dehn Sora, che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo nel giorno precedente con il suo progetto Treha Sektori. Dall’inizio alla fine siamo preda di un vero e proprio muro di suono e veniamo colpiti e ammaliati dalle luci e dai visuals proiettati dietro il palco, che ci guidano attraverso l’ennesima esperienza a cui assistiamo in questo festival.

Throane


Tuttavia, poco prima della fine del concerto tocca spostarsi nel Main Stage per la performance più attesa della giornata, ovvero la collaborazione tra i Triptykon e la Metropole Orkest, parte dell’Act The Burning Darkness, curata da Thomas Lindberg. Suoneranno Requiem, una versa e propria opera creata dal frontmam Tom G. Warrior a partire dalla prima parte, Rex Irae, tratta dal celebre disco dei Celtic Frost “Into the Pandemonium”. Partiamo dal presupposto che non si è trattato assolutamente di ciò che un normale fan dei Triptykon o dei Celtic Frost si aspettava: pochissime distorsioni, nessun riff sfascia crani, ma una vera e propria opera a cui da padrone hanno fatto l’orchestra vincitrice di un Grammy Award, la voce di Claudia-Maria Mokri già presente in alcuni dischi dei Celtic Frost e infine Tom G. Warrior, vero e proprio mattatore del pubblico. Le tre fasi si sono alternate una dopo l’altra e hanno catturato l’intera audience che è rimasta di stucco davanti ad un progetto così ambizioso e riuscito (almeno in parte), che farà parte di un dvd. Per l’ennesima volta lo svizzero Tom G. Warrior si è dimostrato un artista eclettico ed in grado di stupire, anche lasciando poco spazio al metal vero e proprio e dando più importanza alla trama musicale da lui composta e accompagnata egregiamente dai suoi compagni di band e dai membri dell’orchestra.

Triptykon + Metropole Orkest


Tempo di una rinfrescata ed eccoci di nuovo al Main Stage, per assistere alla performance di Anna Von Hausswolff, che abbiamo deciso di preferire a quella dei Conjurer (a posteriori facendo un’ottima scelta, visto che l’Hall of Fame dove si sono esibiti gli inglesi è risultata strapiena e inaccessibile). Allora, qui c’è moltissimo da dire: avevo apprezzato l’artista svedese ma solo in parte dai suoi dischi, specie dall’ultimo Dead Magic, che ritengo un vero e proprio gioiello; non mi aspettavo tantissimo, ma un concerto alla Emma Ruth Rundle molto apprezzabile e godibile, nulla più. Ed è qui che sbagliavo, in quanto la svedese è stata la più grande sorpresa del festival, ed è stato uno dei set migliori a cui abbia assistito nella mia vita. Il report potrebbe finire qui, ma per dovere di cronaca vado avanti. La setlist è iniziata in maniera molto soft, ha portato l’ascoltatore in un mondo da lei totalmente governato e ci ha sbattuti a destra e sinistra sua totale volontà. Suoni a dir poco incredibili, una presenza on stage gigantesca, varietà e puro talento a favore della musica che ha colpito sicuramente tutti i testimoni del concerto, grazie alla sua dinamica che andava dal suono gentile della sua voce a suoni giganteschi e pesantissimi. Se non l’apprezzate in studio, datele una chance in live. Si tratta di una cosa totalmente differente e inaspettata, che vi lascerà sicuramente di stucco. Non ci sono molte parole per descrivere questo set, se non chapeau, ho assistito sicuramente ad uno dei concerti in top 3 dell’intero festival.

Anna Von Hausswolff


C’era sicuramente bisogno di tempo per riprendersi dopo una cosa del genere, così ci siamo rifocillati e riposati. Consci del fatto che il Patronaat, su cui si esibiranno i Mono per uno special set, è un territorio che rimarrà inesplorato per l’intero festival a causa della fila incredibile che si formava tra i set, ci dirigiamo verso il De Koepelhal per assistere alla collaborazione di Thou & Emma Ruth Rundle. Si tratta del primo set dei Thou, da noi guardato, che ci colpirà solo in parte. Si tratta di un progetto nato esclusivamente per il festival, rodato da qualche live su suolo americano, e che produrrà un disco vero e proprio in uscita. Parlando del concerto vero e proprio, si può sicuramente dire che il progetto è riuscito: la voce di Emma Ruth Rundle accompagna benissimo e a volte si fa protagonista del suono granitico degli americani Thou, che creano un vero e proprio muro di suono. Ovviamente tutti i pezzi sono inediti, essendo composti per l’occasione, ma il pubblico è comunque piacevolmente colpito e trasportato dalle mani e ugole dei membri del gruppo presenti sul palco. L’unica pecca è forse stata una dinamica stabile per tutto il set, che non ha creato troppa varietà e alla lunga ha un pochino stancato. Tuttavia, a parte questa precisazione, un altro set apprezzabile e divertente, tra i tanti del festival.

Thou + Emma Ruth Rundle


Oramai stanchi morti, ci aspetta solo un live per chiudere la giornata. Dobbiamo rinunciare dolorosamente ai Messa, che tenevo molto a rivedere ma che suoneranno nel Patronaat, palco inaccessibile per i motivi sopra scritti. Detto ciò, ci andiamo a sedere nel Main Stage per assistere al live degli At The Gates, che hanno un posto speciale nel mio cuore: Slaughter of the Soul è stato il primo disco metal che abbia mai ascoltato e apprezzato oramai quasi quindici anni fa, quindi debbo a loro il mio ingresso nel mondo di questo macrogenere. Le gambe però non collaborano a causa dei molteplici spostamenti e di altre motivazioni di cui ho parlato nell’incipit, quindi sarà il primo set che vedrò e ascolterò seduto e non sotto palco. Tra l’altro è la prima volta che ho la possibilità di assistere ad un loro concerto, e tutto fomentato alla fine decido di alzarmi anche se non mi avvicinerò al pit. Il live è da band rodata dagli anni, riff schiacciasassi si alternano ad altri riff schiacciasassi e ad alcune collaborazioni sempre in riferimento al concept The Burning Darkness. Vedremo altri artisti susseguirsi sul palco come Anna Von Hausswolff, Matt Pike, Rob Miller e Jo Quail. Ma è inutile, nonostante il pubblico in visibilio alla presenza di uno dei frontman degli Sleep, che suoneranno il giorno dopo, il top si è venuto a creare quando son stati suonati i grandi classici Slaughter of the Soul, Blinded By Fear e Suicide Nation. Son tornato undicenne per un momento e ho ricordato lo stupore e l’attrazione quasi morbosa per quel video girato all’oscurità e con immagini poco rassicuranti come quello di Blinded By Fear. Emozioni a parte, grande concerto. Forse quello un po’ più fuori luogo di questa edizione del festival, ma d’altra parte l’eterogeneità della proposta musicale è sicuramente uno dei grandi punti di forza del Roadburn.
Tristi per esserci persi Messa e Bosse-De-Nage, torniamo alla tenda per riposarci e riprenderci, visto che i successivi due giorni saranno quelli con più aspettative.

At The Gates


Sabato 13 Aprile
Carichi a palla per questa giornata da giorni, si raggiunge il Main Stage alle 15 per assistere al set dei Wolvennest, gruppo doom abbastanza diverso dal solito che ha rilasciato nel 2018 Void, uno dei dischi che più mi hanno colpito nell’annata scorsa. Da subito è facile capire che non si tratterà di un set come un altro, ma dal sapore quasi occult, vista la scenografia preparata dalla band. Siamo accolti da un vero e proprio altare al centro dello stage dietro il quale si posizionerà la cantante principale, e pronti via si parte proprio con Silure, opening track del disco poco fa menzionato. Grandi suoni, grande presenza scenica (sembra quasi che sia in atto un’opera teatrale, visti i veri e propri costumi dei membri della band), ma che alla lunga, purtroppo, hanno stancato. Forse un intero set è un po’ troppo, anche se alcune idee son state incisive, tra cui il ping-pong tra i due cantanti, una voce femminile quasi sciamanica accompagnata dal growl e dalla voce profonda di quella maschile, che farà sporadicamente l’apparizione sul palco. Tutto sommato convincenti, ma come già detto in precedenza un po’ stancanti viste le dinamiche abbastanza statiche per tutta la durata del set, che probabilmente è durato un po’ troppo vista la sua ora e mezza.

Wolvennest


Però, sullo stesso palco, ora tocca ad uno dei live più attesi dal sottoscritto: i Sumac. Aaron Turner è qui al Roadburn con tre suoi progetti, a due dei quali sarò testimone: questo e gli Old Man Gloom, che suoneranno il giorno successivo.
Inutile dire che tutta l’audience è stata massacrata da dei suoni giganteschi ed incredibili, al limite del noise. Ma c’era da aspettarselo, visto il principio su cui è nato questo progetto e i membri, che, oltre Turner, fanno parte di Russian Circles e Baptists. Detto fatto, i Sumac sono un vero e proprio tsunami, che grazie all’impianto del Main Stage riescono a sprigionare la loro vera e propria essenza. Son stato quasi tentato dal mettermi dei tappi per le orecchie, per poi mandare tutto a quel paese e godermi lo sprigionamento dei watt e delle valvole. Il set è stato incredibilmente variegato e ne hanno fatto parte improvvisazioni e pezzi tratti dall’ultimo, incredibile, disco Love in Shadow. A impreziosirne la performance, poi, è salito sul palco Caspar Brotzmann, che con il suo basso si è immerso totalmente nel sound noise dei Sumac e ha partecipato al massacro generale. Grandissimo concerto su cui c’erano tante aspettative, superate di gran lunga.

Sumac


Terminati i Sumac, ci prendiamo la proverbiale pausa-cena prima di assistere al concerto successivo, quello dei Cave In. C’è tanto interesse in sala per scoprire come sarà il set data la morte prematura del bassista e cantante Caleb Scofield, venuto a mancare circa un anno fa. Al suo posto ci sarà Nate Newton, già bassista dei Converge e chitarrista degli Old Man Gloom. Tra il boato generale il gruppo si presenta sul Main Stage e inizia a macinare riff su riff degli storici dischi prodotti, senza mai mancare di rivolgere i propri strumenti al cielo in evidente tributo per lo scomparso Caleb, che è anche presente nelle visual dietro il palco. Inoltre, viene presentato il singolo del nuovo disco degli americani, Shake My Blood, che uscirà quest’anno. Nonostante il growl precedente fosse un’altra cosa, Nate Newton si sbatte e porta a casa un ottimo risultato, anche aiutato da Stephen Brodsky alla voce pulita. Anche se i Cave In non sono mai stati tra i miei gruppi preferiti, il set è coinvolgente e unisce tutti i presenti in ricordo di Caleb Scofield.

Cave In


Nonostante la calca sotto il palco prima di un concerto non sia una prerogativa del Roadburn, anzi, si decide di fiondarsi sotto lo stage per godersi il gruppo che più di tutti è atteso in questo festival: gli Sleep. Ricordiamo che i set saranno due, oggi tocca alla riproduzione nella sua totalità di Sleep’s Holy Mountain, che è nelle orecchie di chiunque si proclami fan del doom e dello stoner. Dopo aver montato alla velocità della luce una backline gigantesca con in sottofondo i suoni dell’atterraggio lunare, formata da otto casse per chitarra e altrettante per basso, in perfetto orario salgono sul palco gli ormai iconici Matt Pike e Al Cisneros, accompagnati dall’ormai ufficiale batterista Jason Roeder, già membro dei Neurosis. È quando Dragonaut attacca che il pubblico esplode, per godersi quello che più che un disco è un vero e proprio manifesto. A parte qualche acciacco e qualche problemino di amplificatori, il gruppo è in palla e propone un grande concerto, votato alla maestosità del suono che colpisce direttamente nello stomaco e che ipnotizza tutta l’audience (N.d.R. sono quasi sicuro di aver sentito odore di Marijuana, la droga del diavolo, durante tutto il set. Che vergogna.). Si susseguono i classici The Druid, Evil Gypsy/Solomon’s Theme, Holy Mountain e insomma tutto il disco. Persino lo stacco di Some Grass, che vede Matt Pike da solo sul palco con una chitarra acustica che evidentemente si chiede come mai non ci sia attaccato un fuzz e un po’ imbarazzato improvvisa, nonostante gli si legga negli occhi che non vede l’ora di passare alle cose serie. Gli Sleep si fermano un attimo, e l’addetto ai visual fa un errore: manda dietro al palco l’immagine gigante di Dopesmoker in anticipo e togliendola subito dopo, mandando il pubblico direttamente nell’iperspazio. Come volevasi dimostrare, i nostri salgono sul palco accompagnati da una gigantografia dell’iconico artwork di Dopesmoker, e attaccano. Non credo di aver sentito durante tutto il festival un boato più grande. I suoni sono ancora più incredibili del disco, colpiscono direttamente il cervello e lo mandano in pappa. Tutta l’audience è completamente ipnotizzata dagli americani, che suonano tutta la prima mezz’ora del mastodontico capolavoro del 2003 (va bene, Jerusalem è del ’99, ma non spendiamoci troppo in dettagli del genere), per poi attaccare con The Clarity, singolo del 2014. Finito tutto, un evidentemente stanco Al Cisneros si rivolge al pubblico con un chiaro “See you tomorrow”. La gente è ancora provata pesantemente da ciò a cui ha appena assistito, e mestamente e molto, moooolto lentamente si appresta ad uscire dal Main Stage per andare a riprendersi da qualche parte. Così facciamo noi, che andiamo a dormire storditi e più che soddisfatti.

Sleep
 

Domenica 14 Aprile
Ed ecco qui, tocca al gran finale. Ultimo giorno del festival, prima di tornare a casa e pensare a ciò a cui si è appena vissuto. Storicamente denominato Afterburner, dovrebbe essere il giorno di scarico e teoricamente più “leggero”, anche se da qualche anno non è più così. Anzi, probabilmente per il sottoscritto è stata la giornata più attesa e pesante, e data la presenza di alcuni gruppi, non poteva essere altrimenti.
Si inizia prestissimo, alle 13.50, con gli Have a Nice Life che proporranno il loro capolavoro, l’iconico Deathconsciousness nella sua totalità. La nota particolare è dovuta al produttore dei visuals, che è lì sul palco con loro e li proietterà e farà in diretta con il concerto, senza alcuna preparazione precedente. A parte questo, la parola chiave è ancora una volta intensità: il duo americano è accompagnato da altri tre musicisti, rispettivamente altra chitarra, basso e batteria, e non si farà pregare per ricordare come il progetto sia nato più per sfogo che per altro, visto che “No one will ever listen to this”. Il cantante è presissimo e sente tutta la pesantezza delle parole che ha scritto più di dieci anni fa, e lo si vede. È provato e a volte gli si spezza la voce, ma solo e unicamente per l’emozione. Sentimento che trasmette al pubblico, che si “gode” uno show pesante ed intenso, che tocca tutte le corde dell’animo umano. Anche sta volta l’equazione grandissimo disco – grandissimo concerto è rispettata.

Have a Nice Life


Praticamente passeremo tutta la giornata al Main Stage, e quasi a farlo a posta adesso tocca ad un altro gruppo che lo scorso anno ha diviso l’audience ma si è presa una fetta di celebrità a mio parere meritata. Sono i Daughters, che propongono praticamente tutto il nuovo ed eclettico disco You Won’t Get What You Want. Attitudine hardcore a mille, il cantante Alexis Marshall si prende la scena da subito. Non sembra un palco a cui gli americani siano abituati, ma lo rendono tale. Stage-diving, contatto con il pubblico e volata sul balcone del bar sono solo alcuni degli ingredienti che renderanno memorabile questo show, anche a causa del fatto che nell’edizione di quest’anno non sono cose che si sono viste spesso. Hardcore, Industrial e Dark Wave: la musica e le parole disturbanti prodotte dai Daughters colpiscono tutta l’audience sin da subito e attaccano direttamente il cervello degli ascoltatori, dando vita ad uno show sicuramente da ricordare.

Daughters


Tempo di prendersi un caffè e riprendersi e si riattacca subito, sta volta tocca ai Thou, che da soli si presentano sul Main Stage un po’ intimoriti, ma è solo l’impressione iniziale. Subito prendono confidenza, e attaccano con il loro ultimo set dedicato alla Magus era, i vari dischi prodotti nell’ultimo anno. Ricordate il set un po’ stancante con Emma Ruth Rundle di cui vi ho parlato prima? Bene, dimenticatelo. Adesso si fa sul serio, e i Thou sprigionano pura potenza, dovuta anche al fatto che si trovano nell’ambiente musicale dove si trovano più a loro agio. I suoni mastodontici accompagnati da uno scream glaciale colpiscono l’ascoltatore e lo prendono a botte per tutta la durata del set. Si tratta di vere e proprie manate in faccia, e tutto il pubblico ne vuole sempre di più. Non c’è un momento di pausa, il gruppo ha oramai preso confidenza con il palco e tira fuori riff su riff macinando tutto ciò che trovano di fronte, anche accompagnati da un impianto molto grande che ne amplifica le qualità. I Thou hanno probabilmente raccolto meno di ciò che si meritano nella propria carriera, ma questa posizione sul Main Stage sembra più adeguata che mai. Show incredibile, assolutamente nulla di negativo da dire.

Thou


Dopo una breve capatina agli stand del cibo, facciamo un rapido salto dagli Ulcerate nella Green Room, vedendo comunque troppo poco per esprimere un’opinione, visto che a breve tocca ad un altro grande gruppo ancora nel Main Stage, gli Old Man Gloom. Beh che dire, la questione della morte di Caleb Scofield, membro anche del gruppo Sludge, tocca anche qui apici importanti. Tuttavia ora tocca alla musica parlare, e il supergruppo attacca gli strumenti. Si è trattata di un’esperienza shockante: gli Old Man Gloom hanno fatto a mio parere il più grande show del festival. Suoni granitici, forma strepitosa e tiro incredibile. Non voglio parlare nello specifico della setlist, non hanno mai smesso di stupire e dare craniate al pubblico. Mai un calo, mai un piccolo spiraglio di luce, solo botte su botte su botte. Aaron Turner, già sentito il giorno scorso con i Sumac, supera sé stesso e produce una performance vocale e strumentale totalmente fuori dalla comprensione umana, dimostrandosi l’alieno che è. Accompagnato egregiamente da Nate Newton, Stephen Brodsky al posto di Caleb Scofield e Santos Montano alla batteria (vero mattatore del gruppo, guardare la pagina Facebook e Instagram per la testimonianza), il concerto prodotto è qualcosa di extraterrestre. E visto che non ci vogliamo far mancare nulla, ad un certo punto Stephen Brodsky si avvicina al microfono e pronuncia tre parole: “This is Zozobra”. Aaron Turner passa solo alla voce e sale sul palco Adam McGrath (Cave In, Zozobra), e il concerto diventa improvvisamente degli Zozobra, che a loro volta massacrano tutti. Per non farsi mancare la proverbiale ciliegina sulla torta, vengono raggiunti da Jacob Bannon (Converge, Wear Your Wounds) per l’ennesima collaborazione sempre sui loro pezzi. Il pubblico è in estasi. Come già detto, a mio parere il concerto più incredibile dell’intero festival.

Old Man Gloom

Zozobra + Jacob Bannon


Ma non è mica finita, ora tocca al gran finale: il secondo set degli Sleep. Non è facile eguagliare o sorpassare il concerto appena finito degli Old Man Gloom, ma il trio americano mette a dura prova la scelta del migliore. Il secondo set è incentrato principalmente su The Sciences, disco uscito a sorpresa lo scorso anno proprio durante il Roadburn. Proverbiale sottofondo, come la scorsa serata, dell’atterraggio sulla luna, ed eccoci che i nostri salgono sul palco. Dopo l’intro The Sciences, a sorpresa parte Leagues Beneath, altro singolo prodotto lo scorso anno. I riff si susseguono uno dopo l’altro, i tre si vede che sono molto più in forma di ieri e lo fanno sentire anche al pubblico, che li segue come dei messia. Il disco viene suonato tutto, i suoni possibilmente sono ancora più grossi e definiti dello scorso set e ci si rende conto di come mai siano dei veri e propri santoni seguiti da tutti gli appassionati dello stoner e del doom. Finito The Sciences, c’è ancora spazio per delle manate ed è qui che sorprendono tutti: ripropongono Holy Mountain e Dragonaut, dando doppia dose ad un pubblico che la richiedeva a là Oliver Twist. C’è poco da dire sugli Sleep che non si sia già detto: se non li avete mai visti, andateli a vedere, magari evitando situazioni dove l'impianto non è il top. Matt Pike for President.

Sleep

Stanchi e provati, e consci che il giorno dopo ci aspetterà uno sbattone non indifferente tra rimontaggio di tende e bagagli, ci dirigiamo mestamente verso il camping, consci di aver assistito a qualcosa di irripetibile.
Ed è qui che si conclude questo lunghissimo report, se siete arrivati fino alla fine vi faccio i miei complimenti vivissimi. All’anno prossimo!
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