Sabato
14
Ovvero la giornata definitiva!
Mai potevano dei cuori così candidi sperare nell’assistere
a così tante esibizioni eccezionali tutte nello stesso giorno!
Il
pomeriggio comincia con dei toni soft, grazie all’acoustic solo project di Mike
Scheidt. Un set davvero intimo, sensazione data anche dalla scelta del
palco, lo Stage 01, oltre che intimista (come ogni progetto acustico che si
rispetti). Mike seduto sulla propria sedia, totalmente solo sul palco, una
chitarra acustica, inizia effettandola, proponendo sonorità che ci fanno
galleggiare, chiudere gli occhi e perderci. Unica pecca il fatto che per i primi
– pochi – minuti la voce non si riuscisse a sentire. Rimediato questo
inconveniente il set acustico riesce a prendere davvero la propria forma, con
un lieve effetto alla voce e il suono della chitarra il più semplice e schietto
possibile. Uno stile – musicale e vocale – che a tratti poteva ricordare le
produzioni acustiche di Zakk Wylde e che, a parte qualche esploit finale denotante
le abilità compositive di Scheidt, si è presentato nella maniera più classica
in cui si possa concepire un set acustico. Ci aspettavamo forse un lume di
particolarità in più forse dal frontman degli Yob, nonostante questo l’effetto
è stato comunque assicurato. Il valore aggiunto è dato senza dubbio dalla
persona di Mike Scheidt, sempre disponibile, alla mano e a portata di mano. Un
artista vero.
Ci spostiamo nel Main Stage per assistere allo show dei 40
Watt Sun e troviamo qualcosa di decisamente molto interessante ma alla lunga troppo noioso, con le sue distorsioni cupe e pesanti, le
sue ritmiche cadenzate dalle sonorità dilatate, create da accordi lunghi che si mischiano al post-rock. Il tutto viene, però, confezionato in una maniera
più romantico/’90s grazie a questa voce smielosamente triste, dalle linee
vocali (non la timbrica vocale) che vagheggiano Billy Corgan, coronato dal frame
offerto, ovvero tre timidissimi esecutori dall’aria vagamente nerd. Troviamo
che l’idea sia buona, ma che il risultato finale rischi di essere troppo pesante
da digerire, nonostante la gradevole pesantezza delle distorsioni.
Anche con i successivi Dark Buddha Rising, esibitisi
nella Green Room, riceviamo una sorpresa. Il nome infatti qui mi dava da
pensare ad un gruppo orient-mystic-psych, e invece ci si para davanti questo
individuo a torso nudo (il resto non lo so, perché non vedevo, ma non posso
assicurare nulla) dipinto in volto come se indossasse una maschera bianca dai
tratti neri. Un aspetto cattivissimo per una musica decisamente potente, un
doom ripetitivo fino all’ossessione, oltrepassando la natura di mantra e
arrivando al livello di malattia mentale, denotata dagli urli strazianti
prodotti dallo screaming del cantante. Suggestivo davvero.
Torniamo a piazzarci nel Main Stage per non perderci il
live dei contestatissimi Church of Misery, che nonostante tutto la sala del
palco principale l’hanno riempita! Ha sempre un effetto molto esilarante vedere
questo chitarrista dai biondi boccoli circondato totalmente da musicisti
giapponesi! Al di là di questa parentesi la band offre né più né meno
quello che ci si aspetta da loro, ovvero un divertentissimo stoner dal gusto
prepotentemente ‘70s, in una esibizione che ha fatto concentrare l’attenzione
sulla sfiga del bassista: ben 2 testate saltate nel ben mezzo del live e
proprio ai primissimi pezzi! Faceva tenerezza la sua aria desolata…prontissimo
lo staff del Roadburn si è mosso meglio dei garagisti di formula uno per
effettuare il cambio in corsa, finché non è stata trovata la combinazione
giusta tra una testa Orange e il Rick dalla tracolla più lunga del mondo!
Novità dei giapponesi quest’anno è stata il nuovo cantante: decisamente più
giovane del precedente ed evidentemente emozionato, era talmente protagonista
del suo momento che non si è nemmeno girato a guardare il compagno in
difficoltà. Si spera, inoltre, che si tolga il vizio di applaudire sul
microfono, perché è una delle cose più disturbanti che esistano durante un
live! Ha comunque retto bene il proprio ruolo, impreziosendo il live con un
sintetizzatore usato poco, ma bene.
Restiamo nel Main Stage, mangiamo nel Main Stage, viviamo
nel Main Stage!! E come andarsene quando i prossimi ad esibirsi sono i Pelican?
E come farsi venire il benché minimo pentimento dopo aver assistito al live più
stravolgente del Festival? Definitivi. È il primo aggettivo che ci è venuto in
mente. Nemmeno un capellone nel gruppo, ma han dato la merda a centinaia di
capelloni messi insieme. Non hanno smesso un minuto di dare di testa, e
nonostante questo nemmeno una sbavatura, un’incertezza. E i suoni…le mie
orecchie chiedevano i tappi, ma io le ho costrette a godersi appieno il muro
sonoro creato da questo formidabile gruppo post-metal, il quale si è fatto
accendere il microfono esclusivamente per ringraziare il pubblico. Raffinati su
CD, un calcio (rotante) in faccia dal vivo. I maestri dello slide, i paladini
della cavalcata. Fenomenali!
Li seguono The Obsessed, sempre nel Main Stage (sulle cui
gradinate abbiamo ormai formato la conca delle chiappe alla Homer Simpson) con
Wino che non si era nel frattempo tagliato la barbetta da eremita, che lo rende
un po’ meno “truce”, ma in fondo gli dona. Doom classico, stampo anni ’70 più
che riconoscibile, un riposante live da sorriso sulle labbra, ma niente di più.
Tante moine al microfono, sbrodolamenti di “thank you”, ma ciò che traspare è
uno scazzo incredibile, che forse sarebbe potuto essere scambiato per
imbarazzo, per quell’atteggiamento del “devo farlo, ormai son qui”. La
consolazione è il pensiero del live successivo…
Un documentario sui viaggi spaziali (quelli veri) forse
recuperato dalla National Geographic del 73 appare proiettato sul tendone che
funge da sfondo alle esibizioni. Ebbene sì, per tutta la mezz’ora di cambio
palco/soundcheck i nostri non hanno perso occasione di farci entrare in
atmosfera.
Cominciano a entrare degli amplificatori…
Ne entrano poi altri…
Non si sa se ridere o se piangere all’immaginare cosa ci
aspetterà sonoramente parlando in questo live!
Passa Matt Pike, già a petto nudo ancor prima di
iniziare, accompagnato dalla sua pancia alcolica. Ma la perla di stile arriva
quando volta le spalle al pubblico: per concederci di vedere in tutto il suo
splendore il mega tatuaggio dipinto sulla sua schiena, Pike ha pensato bene di
calarsi i jeans a metà culo. Bello il tatuaggio, bello anche lo spacco delle
chiappe! Alla stazza raggiunta dal leggendario Al Cisneros non ci abituiamo,
nonostante l’avessimo già visto con gli OM giovedì ed incrociato sulla via
della stazione diretto presumibilmente alla Grass Company.
Ma passiamo al live, che anticipo che ha superato
qualunque tipo di immaginazione o aspettativa, rivelandosi devastante. Si inizia
prevedibilmente con Dopesmoker e già il livello di presabenismo è alle stelle. Il
metro di giudizio è l’escursione raggiunta dai movimenti del collo di Cisneros,
che come cavolo fa a muoverlo così lo sa solo lui. Il live è fatto per essere
goduto, non per essere presentato al pubblico nella maniera in cui viene
concepita classicamente. Le pause e le interruzioni sono frequenti e lunghe, i
musicisti si perdono nella regolazione delle equalizzazioni. Cisneros si
attempa parlando con un roadie, Pike scroccando da bere a qualcun altro dietro
le quinte. Sembrava una mega sala prove. Godiamo ancora con Dragonaut,
immancabile pezzo in una reunion degli Sleep. Da qui in poi la mega sala prove
sembra virare nella direzione dell’improvvisazione (anche se non era
evidentemente così) e i tre iniziano a produrre suoni, non più musica, ma
suoni, vibrazioni, stati fisici che il THC deve aver amplificato sino al
raggiungimento delle visioni mistiche. Ed è proprio di questo che Cisneros
sente la necessità dopo un po’: si avvicina al microfono e, senza giri di
parole, chiede un joint. Che si accende e si fuma sul palco nel pieno dell’ovazione
generale. Un live ultraterreno, dai volumi assurdamente gonfi che il limite di
dB italiano si sogna. Ci hanno sorpresi i ragazzi, a chiunque si aspettasse di
sentire tutto il loro repertorio riprodotto per intero, non c’è stato nulla da fare. Loro erano Al
Cisneros, Matt Pike e Jason Roeder, presi bene come nemmeno ci si aspettava,
alternando momenti di perdizione assoluta all’interno dei propri suoni, ad
altri in cui si raccoglievano con la batteria come punto di riferimento.
Alla fine, Roeder si alza, ringrazia ed esce. Cisneros e
Pike appoggiano i propri strumenti alle spie, escono e lasciano che il feedback
sciolga il cervello degli astanti.
Dopo aver assistito a qualcosa del genere, l’unica cosa
che viene voglia di fare è rannicchiarsi in un angolo e ripensare a quanto si è
appena visto.
Ma all’Het Patronaat suonano i Bongripper, e che fai, non
vai nemmeno a sbirciare? È stata purtroppo solamente davvero una sbirciata, ma
ne è valsa la pena, perché i ragazzi sanno il fatto loro, hanno suoni
incredibili e sanno davvero cos’è lo stoner/doom senza fronzoli di sorta.
Tutto il resto è Kebab.
SLEEP - DOPESMOKER