Stanno finendo gli anni '60 quando John Michael “Ozzy” Osbourne, Anthony Iommi, Bill Ward e “Geezer” Butler fondano la Polka Tulk Blues Band, formazione di blues rock che conosce una breve stagione di notorietà a livello locale. Siamo a Birmingham, città natale di un altro gruppo di una certa qual importanza per la musica “dura”. Anche i Polka Tulk (poi Earth), come i concittadini Led Zeppelin (parlavamo di loro, ovviamente), mostrano le influenze più varie: oltre all'immancabile blues (matrice di tutta la musica leggera o quasi), i quattro si appassionano al folk europeo e alla psichedelia. Dove sta allora il colpo di genio, la scintilla, la cesura con tutta la tradizione precedente? Cosa rende i Black Sabbath un gruppo sostanzialmente diverso?
Com'è normale e doveroso aspettarsi, la risposta sta in un'oscura leggenda metropolitana mai confermata dalla band. Pare che, dopo una serata al cinema a godersi un marcissimo horror italiano, Osbourne abbia guardato l'amico Butler e gli abbia chiesto “secondo te, se la gente paga per farsi spaventare al cinema perché non dovrebbe pagare per farsi spaventare da un disco?”.
Stiamo parlando del 1968, la fine del decennio di peace&love, la morte di un'idea rivoluzionaria quanto utopistica e irrealizzabile. La gente non si drogava più per essere in pace col mondo ma per scappare dal mondo stesso, i colori allegri che sembravano tingere ogni nota uscita da quegli anni si stavano facendo così luminosi da far male, parossistici e ostentati. C'era chi si rifugiava in luoghi della mente, dedicandosi all'escapismo intellettuale (è di questo periodo l'uscita di 'In The Court Of The Crimson King'). C'era chi affrontava a viso aperto tutto lo schifo del mondo. E c'era chi aveva deciso di fondere i due approcci, portando l'orrore in musica e creando qualcosa di profondamente simbolico ed emblematico.
Fu così che, ispirandosi al titolo di un horror di Mario Bava con Boris Karloff, Geezer Butler scrisse una canzone intitolata “Black Sabbath”. Il disco d'esordio venne battezzato allo stesso modo, così come il nome della band. Gli Earth scompaiono (forse...), e il 13 febbraio 1970 nasce il mito dei Black Sabbath.
Il disco d'esordio è un colpo grosso: arriva all'8 posto in Inghilterra e al 23 in America, nonostante un airplay radiofonico pari a zero, e soprattutto sconvolge le menti di un'intera generazione. Chiunque abbia sentito l'attacco di “Black Sabbath” può confermare: pioggia, rintocchi di campane, un riff oscuro, rallentato, marcio; e poi la voce di Ozzy, sgraziata, nasale, stonata eppure dannatamente espressiva. Basterebbero i sei minuti della prima traccia per definire un genere, ma soprattutto un modo di intendere la musica pesante. Intendiamoci, non che il resto del disco sia da meno: l'armonica blues di “The Wizard”, l'epico ritornello di “N.I.B.”, la splendida “Behind The Wall Of Sleep”... in otto canzoni viene creato un mondo. Occultismo, satanismo, magia nera, visioni lovecraftiane: la rivoluzione avviene anche a livello tematico, tanto che il gruppo conoscerà un prevedibile ostracismo per via dei suoi (più o meno millantati) legami col Maligno e la sua cricca.
Il resto della carriera del gruppo, almeno per quel che riguarda la fase con Ozzy, è una costante ricerca di direzioni nuove: dagli anthem proto-metal di “Paranoid” alla psichedelia di “Masters Of Reality”, proseguendo con i proggy “Volume 4” e “Sabbath Bloody Sabbath” - che vede alle tastiere un certo Rick Wakeman. Anche “Sabotage”, “Technical Ecstasy” e “Never Say Die!” contengono elementi di interesse, ma ascoltandoli ci si rende conto che ci stiamo allontanando dal seminato. I Black Sabbath che interessano a noi sono quelli dei primi cinque, irripetibili dischi.
Fonte: Il Panopticon