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IMPERIAL TRIUMPHANT: ALPHAVILLE (RECENSIONE)
Nel corso degli ultimi due decenni abbiamo assistito alla nascita di innumerevoli gruppi che continuano tutt’ora a imporre dei nuovi paletti all’interno della scena death metal, diventando esemplificazione delle ultime avanguardie. Gli Imperial Triumphant sono, forse, i meno osannati in mezzo ad altri gruppi dal calibro piuttosto importante come Ulcerate o Portal, ma non per questo vuol dire che meritino meno attenzione. Ciò che contraddistingue gli Imperial Triumphant da tutti gli altri sono l’uso del sassofono il quale permette di sconfinare in lidi jazz, spesso prendendo il sopravvento sull’intero songwritng, e l’immaginario da cui esso attingono, il quale richiama l’estetica e le tematiche post industriali degne del capolavoro cinematografico “Metropolis”. Non a caso è stata citata la pellicola di Lang, in quanto guardando la copertina di questo Alphaville è impossibile non ricollegare le stesse atmosfere espressioniste e decadenti che il film propone. Musicalmente parlando, questa nuova fatica degli Imperial Triumphant è il continuo di quell’enorme perla che fu già nel 2018 Vile Luxury. Ci troviamo d’innanzi ad un grattacielo infinito composto da dissonanze claustrofobiche e sinfonie sinistre. Già l’iniziale Rotted Futures è manifesto del mood opprimente del disco, ma l’intero lavoro vive di diversi momenti altissimi tutti da scoprire durante il procedere dell’ascolto, come le chitarre pesanti come macigni ma capaci di destrutturare completamente i riff da un momento all’altro, il meraviglioso contributo di Tomas Haake in Atomic Age, le già citate influenze jazz le quali fuoriescono prevalentemente in Transmission to Mercury, per infinte arrivare alle due cover di Experiment dei Voivod e Happy Home dei The Residents, quest’ultima certamente più riuscita e maggiormente fatta propria dagli Imperial Triumphant. Alphaville è l’ennesimo scalino che proietta gli Imperial Triumphant nell’olimpo dell’avantgarde death metal, arrivando quasi ad eguagliare la stessa grandiosità dei maestri Gorguts.
FRANCESCO SERMARINI
90/100
ULCERATE: STARE INTO DEATH AND BE STILL (RECENSIONE)
Sembra prendere vita, l’ultimo album dei neozelandesi Ulcerate, dalla prima nota dell’iniziale “the lifeless advance” all’ultima nota di chiusa di “dissolved orders”: un organismo che vive di vita propria, si nutre di paure, ansie, depressione, e le sputa fuori con un’inarrestabile furia (controllata) che ha dell’incredibile.
Di death metal si parla, ma di quel death trasversale, monolitico, ultratecnico che vede i suoi padri fondatori nei mai dimenticati Gorguts ed Immolation, avanguardista nell’animo, zeppo di dissonanze, cambi di tempo repentini, sfuriate mastodontiche e colate laviche incandescenti e profondamente nocive. Seguendo di 4 anni il pluri osannato (giustamente) Shrines of Paralysis, i nostri si fanno carico di un sound che prende tutti gli spunti positivi e meno spigolosi che facevano capolino nel succitato lavoro e li sparano nell’iperspazio di un suono talmente avvolgente e umano da sembrare, come detto nell’incipit, vivo: più melodico (melodico?), più dissolto in un ambiente sì nero come la pece ma capace di regalare pesanti rallentamenti ed aperture quasi ariose che lo avvicinano a certo sludge atmosferico.
Gli Ulcerate stanno al death metal come I Deathspell omega stanno al black e con questo nuovo lavoro, senza segnare un punto di rottura netto con il passato, pur con i suoi dovuti distinguo, hanno dato alle stampe un altro capolavoro di apocalisse, forse il loro lavoro più accessibile ma non per questo meno bello dei precedenti.
Sempre più in alto, sempre più a fondo.
LUCIO LEONARDI
90/100
BUSH: THE KINGDOM (RECENSIONE)
Finalmente i Bush. Dopo cambi di formazione, (il solo Gavin Rossdale fa parte della formazione originale), e alcuni album veramente trascurabili, arriva quello che sembra la naturale prosecuzione di Golden State (2001). In realtà a livello sonoro, come ci conferma il buon Gavin, The Kingdom è più simile a The Science of Things, privato quasi del tutto dei suoi orpelli elettronici. Un album concreto, massiccio, moderno, che non disdegna il paragone con il suo ingombrante passato a tinte 90ies, riletto però come se a scriverlo ci fossero stati gli ultimi Helmet. Le canzoni sono quasi tutte molto interessanti, a partire dai singoli Bullet Holes (già edito come colonna sonora di John Wick) e della stupenda Flower on a Grave. Quel che stupisce è che la ricetta della canzone vincente è presente in quasi tutte le tracce del disco. La fantastica titletrack, Ghost in the Machine, Blood River, la ruffiana Quicksand, la ballata strappalacrime Undone, sino ad arrivare alla perla finale Falling Away. Finalmente i Bush sono tornati con quello che probabilmente è il loro album più aggressivo, sicuramente il migliore da 19 anni a questa parte. Bentornati!!!
EMILIANO SAMMARCO
80/100
RINA SAWAYAMA: SAWAYAMA (RECENSIONE)
Di origini giapponesi ma naturalizzata inglese, Rina
Sawayama si fece notare un paio d’anni fa con la sua prima
uscita in assoluto dal nome Rina, ep che venne immediatamente acclamato
dappertutto in via della sua natura pop alternativa, unendo con una facilità
disarmante l’electropop più eclettico con le sonorità tipiche di quelle canzoni
da radio figlie dei vari Backstreet Boys, Space Girls, Britney Spears ecc.
Attorno alla figura della Sawayama si era creata un’aspettativa mostruosa,
vista come la prossima next big thing del pop. Finalmente è uscito il suo disco di
debutto, dal titolo Sawayama, e ,per fortuna, queste aspettative non sono state
minimamente deluse. A questo giro le influenze adottate sono molte di più e
alcune veramente impensabili, in questo senso basti prendere in considerazione STFU!,
traccia che sconfina nell’alternative metal con un riff semplice ma di grande
impatto. La lista delle tracce degne di nota non si ferma certamente qui: Comme
des Garçons è una colonna sonora perfetta per una sfida di voguing, Bad Friend
e Chosen Family sono delle ballad molto commoventi, Paradasin riesce a
trasmettere una vibe estiva trascinante, Love Me 4 Me sembra essere uscita
direttamente dai migliori anni ’90 e così via. In definitiva, questo debutto di
Rina Sawayama è convincente nella sua energia e nella sua orecchiabilità, senza
mai essere banale. Probabilmente il disco pop mainstream dell’anno.
FRANCESCO SERMARINI
85/100
ALVA NOTO: XERROX VOL 4 (RECENSIONE)
Ho seguito sempre con grande passione le scorribande sonore del genio tedesco Carsten Nicolai aka Alva Noto. Dai suoi primi lavori, al suo mondo fatto di glitch calato in atmosfere dark e quasi noir, alla sua ormai nota collaborazione con l’altro genio, nipponico e compositore più classico, Ryūichi Sakamoto, fino ai vari episodi, che il lavoro qui recensito porta a quota 4, di rarefazione sonora e musica Ambient: parliamo degli Xerrox, album in cui il nostro si cimenta nel concetto della replicazione digitale di vario materiale sonoro, quindi seppur di simile atmosfera, la messa in pratica è ben distante dalle sue opere standard, essendo più votato all’ambient, appunto e alla drone music.A dir il vero, non ho mai amato particolarmente i precedenti 3 capitoli, definendoli sì interessanti ma privi di quel guizzo emozionale che mi danno da sempre i suoi restanti lavori.
Xerrox 4 è sempre lì, a disegnare questi paesaggi lunari e cinematici ma con un gusto armonico del tutto nuovo, cosa che lo rende parecchio più interessante e avvolgente dei passati capitoli, cosa che lo rende avvincente ed in alcuni anfratti veramente emozionante.
Continuo a preferire l’alva noto classico, ma questo quarto capitolo mi ha spiazzato, positivamente.
LUCIO LEONARDI
68/100
HOT NUNS: RUDE, DUMB & ANXIOUS (RECENSIONE)
Se pensate che il genere più estivo e adolescenziale del mondo si limiti geograficamente tra la West e la East Coast, beh, gli Hot Nuns sono qui per farvi cambiare idea. Direttamente dalla Norvegia arriva un duo (pop-?)punk coloratissimo e fresco, con una formazione insolita quanto funzionale.
I riff incatenati da Yngve Andersen (basso, voce principale) sono semplici e diretti quanto originali e dotati di un certo stile unico. La band consiste essenzialmente in una miscela di groove solidissimi (non proprio uno standard per il genere), un sound di basso magistrale e una compattezza notevole nel songwriting.
Già al secondo EP dopo il notevole (e forse più incisivo) "Wrong Again" del 2019, Yngve Andersen e Sigurd Haakaas continuano comunque a promettere bene ed a scrivere materiale di qualità.
Speriamo di sentire presto un full-lenght dai punk rockers nordeuropei del momento!
GIANMARCO ZAMPETTI
78/100
CHARLI XCX: HOW I'M FEELING NOW (RECENSIONE)
Charli XCX mi aveva già completamente conquistato con Charli, disco uscito appena l’anno scorso e, secondo me, fra i migliori
dischi in assoluto del 2019. In occasione della situazione di emergenza
mondiale provocata dal Covid-19, la nostra ha deciso di cimentarsi in un’impresa
mica da poco: ovvero creare un nuovo disco completamente da sola e unicamente
all’interno delle sue mura di casa nell’arco di un mese. Per quanto sulla carta
possa sembrare un disco scritto in grande intimità, in realtà Charli XCX ha
sempre tenuto in considerazione l’opinione dei suoi fan, con live periodiche sui suoi profili social, facendo ascoltare le demo delle tracce che avrebbero composto questo
how i’m feeling now, chiedendo pareri e facendosi dare pure indicazioni su
quali sound avrebbe dovuto adottare. Questo ha permesso di far
diventare un disco da cameretta un vero e proprio lavoro collettivo nel quale l’artista ha
potuto contare sulle opinioni e sul brainstorming delle persone che la seguono e amano.
Antecedenti sulla creazione a parte, com’è questo how i’m feeling now? In
parole povere, Charli XCX ha colpito ancora nel segno. Il disco è pieno di idee e
spunti molto interessanti, riuscendo a passare senza problemi dalla bubblegum
più sdolcinata (claws, party 4 u) a vere proprie schegge impazzite di
deconstructed club (pink dimond, anthems). La finale visions è la perfetta
rappresentazione di questi due mondi che caratterizzano il sound di Charli XCX,
un sound che funziona sia per un pride che per aprire un concerto dei Death
Grips.
FRANCESCO SERMARINI
85/100
PHOTOGRAPHS: NOCTURNE (RECENSIONE)
Il pianoforte disegna paesaggi bui. La luce filtra tenue dalle serrande abbassate in cerca di un timido cenno del capo che le indichi la via d’ingresso. Inizia così il nuovo album di Lucio Leonardi, aka Photographs. Nocturne è un disco, (il quarto), che denota un’indole dolorosa quasi masochistica nel voler perseverare su coordinate maniacalmente oscure. Solcate da melodie astratte, che si arrampicano sui manicaretti industriali che Lucio costruisce con maestria. Se l’intro Nocturne sembra uscire dalla penna dell’ultimo Trent Reznor, altrove sembra di ascoltare un mix tra James Blake, Atom For Peace, i NIN di Year Zero e di Ghost V/VI, gli ultimi Radiohead e Aphex Twin, il tutto riletto in chiave idm/industrial ma soprattutto dark. Bellissime Mute, la vena gotica di Madness and Misfortune, la notturna Dark, il futuro post apocalittico di Consummation of Grief, le melodie alla James Blake della stupenda I Turn to Nothing o la profondità emotiva di Mama.
Non si direbbe che Nocturne sia stato composto in soli sei giorni nel silenzio di casa durante il lockdown. Per chi ha bisogno di toccare il fondo, di sprofondare nelle sue inquitudini, per chi non ha paura di guarda i propri demoni interiori dritti negli occhi. Quest'album è per voi, anime buie e tormentate. Promosso a pieni voti.
EMILIANO SAMMARCO
80/100
PERFUME GENIUS: SET MY HEART ON FIRE IMMEDIATLY (RECENSIONE)
Sfido a trovare una discografia così tanto solida e in
continua crescita come quella di Perfume Genius. Mike Hadreas, vero nome del
cantante, fin dal suo debutto del 2010 aveva conquistato chiunque con il suo
artpop intimo, con la sua voce in quasi perenne falsetto da far credere che in
qualsiasi momento possa spezzarsi. Nel corso di questi anni Perfume Genius è
sempre migliorato disco dopo disco, arrivando a quello che probabilmente è (e
sarà) il suo apice artistico, ovvero No Shape, uscito nel 2017. In Set My Heart
on Fire Immediatly, Hadreas non fa altro che riconfermare il suo talento
immenso, capace di creare e modellare melodie di una dolcezza e una malinconia
senza pari, mettendoci dentro tutto quello che vuole, dagli archi ai synth,
dalle chitarre che richiamano al glam a fiati pastorali. Rispetto al precedente
No Shape è un disco con episodi più dark, ma sono comunque presenti momenti
eterei e pieni di sogno, come l’iniziale Whole Life, Nothing at All o Leave.
Chiunque non conosca Perfume Genius e il suo meraviglioso modo di comporre,
direi che è arrivato il momento di recuperare.
FRANCESCO SERMARINI
80/100
ARCA: KICK I (RECENSIONE)
ARCA: KICK I (RECENSIONE)
Il Self Title di 3 anni fa rimane ancora oggi, per me, il suo punto più alto: fu il momento in cui decise di aggiungere la sua (straordinaria) voce alle sue ossessioni fatte di elettronica mutante, atmosfere cupe e a volte malsane, frustate industrial futuristiche, strutture che sembravano prendere forma tanto erano organiche, miste ad un lirismo e ad una profondità d’esecuzione non indifferente.
Passano 3 anni, io con impazienza lo aspetto, lo bramo, nel frattempo lui cambia sesso, cambia il nome in Alejandra, e con questa mutazione, muta anche il suo modo di approcciarsi alla materia musicale: della sua musica rimane tutto, la sua personalità ed il suo modo di costruire rimangono, ma è l’atmosfera generale e il modo di inglobare nuove influenze, anche distantissime dal suo solito modus operandi ad esser cambiati: il Raeggaton futurista (Mequetrefe e la spiazzante - ancora non so se positivamente o negativamente - KLK insieme all’artista gitana Rosalia), Techno, andamenti simil R&B, psichedelia rumorista, Ambient e le solite frustate ipercinetiche di drum contorte ma adesso come non mai più addomesticate che in passato.
Nel tentativo di carpirne ogni anfratto sono arrivato ad un punto: mentre “Arca” era la desolazione dell’animo, il grido di un uomo che voleva esplodere per quello che era realmente, “Kick I” è, appunto, il calcio che Alejandra dà al suo passato, a tutto quello che è stato, alle sue ossessioni, alle sue tristezze; ne esce un album meno potente emotivamente, ad un primo ascolto quasi pop (fantastico a tal proposito il suo modo di mascherare da easy listening ciò che easy listening non è affatto, e non è poco), o avant pop, ma nasconde, tra le sue spire tutti i frutti da cogliere per capire dove andrà la musica elettronica del decennio a venire.
L’album, per la prima volta, vede, oltre alla succitata collaborazione di Rosalia, anche quella di altre Queen della musica contemporanea: Bjork, Sophie e Shygirl, ma sono talmente calate nella personalità e nella visione generale di Alejandra da passare quasi inosservate; e far passare inosservata una Bjork, beh, attesta e fa capire il peso specifico che Alejandra ha in ciò che fa.
Un album non facile, forse interlocutorio, a volte troppo azzardato ma che attesta ancora una volta lo straordinario talento di questa donna, che guarda già da tempo al futuro mentre noi stiamo qui a venerare il passato.
LUCIO LEONARDI
78/100