giovedì 30 aprile 2020

ALTRABBESTIA!!!: Una nuova rubrica per farvi conoscere i nostri ascolti extra Doommabbestia!!!



TOP ALBUM APRILE 2020:

NINE INCH NAILS: GHOSTS V TOGETHER / GHOSTS VI LOCUSTS (REVIEW)

Non posso nascondere il mio amore per questa band, anche nelle mie personali produzioni non ne faccio mistero. Quasi tutto quello che ha prodotto Trent negli ultimi 30 anni mi ha entusiasmato, Da Downward Spiral agli ultimi distruttivi ep, passando per l’ambient (a modo suo) dell’esperimento Ghosts, un viaggio nei meandri della sua mente deviata, contorta ma puramente umana e fragile. Ed è proprio da quegli esperimenti di fantasmi interiori (Ghosts I - IV dl 2008) che si riparte per questo secondo atto (in realtà il quinto ed il sesto) delle visioni più delicate e appunto ambient del nostro: Ghosts V e Ghosts VI continuano il viaggio, invero a sorpresa (non una nota era stata spesa prima del loro rilascio), e completamente in free download, nelle profondità dell’abisso umano, un’abisso che non è più solo il suo, ma di un’umanità che ora come non mai è braccata da un nemico invisibile, rinchiusa in una quarantena surreale e difficile da affrontare.
Separati da due nomi e da due copertine in netto contrasto (bianca, luminosa per V, nera e cupa per VI) i due Ghosts si differenziano per sonorità e atmosfere generali: Together (ghosts V), ci trasporta in una speranza fluttuante, piena di spazi aperti, pianoforti dolci, paesaggi protratti verso l’alto, un viaggio corale, bellissimo. In netto contrasto invece il secondo tomo, Locusts (Ghosts VI): ci incanala in un tunnel fatto degli stessi elementi del primo capitolo, ma questa volta lavorati in un atmosfera completamente differente, se non totalmente opposta, tetra, nera, cupa, senza speranza. 
Ghosts V e Ghosts VI sono due facce della stessa medaglia, come a volerci dire che in ogni tragedia c’è speranza e in ogni speranza si nasconde una tragedia. Ci regalano questo Ying e Yang musicale e noi gli diciamo grazie, ancora una volta.

LUCIO LEONARDI
83/100   




GREG DULLI: RANDOM DESIRE (REVIEW)

Le prime note di Pantomina sono come lo scoppiettio e il calore del fuoco in una gelida notte invernale. Ti riportano subito a casa, ti mettono a proprio agio. Quindici anni ci sono voluti per il frontman degli Afghan Whigs per dare un seguito ad Amber Headlights. La suo voce è sempre la stessa, il tempo non l'ha scalfita. L'ha resa più calda e accogliente semmai. Random Desire scorre velocemente, scorre inesorabile come il tempo che ci trascina man man lungo la riva della nostra vita. Sembra voler dire proprio questo Greg lungo le malinconiche onde che avvolgono questo suo nuovo parto. Le punte emotive vengono raggiunte con le stupende perle notturne che rispondono al nome di It Falls Apart e A Ghost, scelte non a caso come singoli apripista. Non si discosta molto dalla band madre il sound del Dulli solista, piuttosto Random Desire è il grido di un'artista che non ha voglia di tirare i remi in barca, che non ha voglia di raggiungere quella riva. Non ci resta che nuotare verso di lui. Grazie Greg.

EMILIANO SAMMARCO
75/100

O: ANTROPOCENE (REVIEW)
"Lo schifo raggruma dormiente
lasciando un vuoto inquinante
che odio, che merda la gente"
Gli O non sono forse mai stati così arrabbiati, in quello che probabilmente è il disco più black del quartetto blackened hardcore di Biella. Siamo di fronte ad un album intenso come se ne sentono pochi, ma anche compatto e molto coerente nei toni (belli forti!), senza mai risultare ripetitivo. Tematicamente parlando, ANTROPOCENE rimanda ad un evento apocalittico devastante, portatore di rovina ma anche della rinascita di un pianeta ormai allo stremo, come suggerisce la colata lavica che nell'artwork si fonde con l'oceano. Un processo di purificazione, alla fine del quale non si udirà più "nessun urlo, né sparo, nessun nuovo nascituro", e dove "nessun parla, né respira, né distrugge né minaccia". L'opener IZO trae spunto da uno dei miei film preferiti di Takashi Miike, nonché la leggenda del samurai non-morto che "stupra la bocca del perdono, scavalca il muro del proibito, punisce il tempo, seviziandolo vivo". L'album prosegue mantenendosi pesante e disperato, fino al mastodonte post metal finale, Ere. Gli O si muovono benissimo nel loro ormai consolidato stile che spazia tra il post-hardcore caotico e dissonante ed il post metal più granitico, il tutto avvolto dalle atmosfere fumose e ritualistiche del black metal. ANTROPOCENE è un album intenso, estenuante, estremo. Una vera perla del genere, da una band che persino dopo un monolito come PIETRA sa ancora sorprendere.

GIANMARCO ZAMPETTI
90/100




NADA SURF: NEVER NOT TOGETHER (REVIEW)


Never not together è il nono album dei Nada Surf. Sono passati oramai 24 anni da quel High/Low che fece sfracelli grazie al singolo tormentone Popular, che rastrellò seguaci soprattutto nelle radio dei college americani a metà degli anni novanta. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata, ma i Nada Surf sono rimasti a galla grazie a dischi sempre (o quasi) ottimi. Un paio di piccoli passi falsi d'altronde sono fisiologici nella carriera di una band ultra ventennale che ha contribuito a forgiare il suono di centinaia di indie band che oggi popolano il panorama rock. Quel che è certo è che il nuovo Never Not Together è un album davvero bello. Ricco di pathos e di tensione emotiva. A brani dal sicuro appeal commerciale come il singolo So Much Love si alternano perle come la stupenda Crowded Star, o la semi ballad Live Learn and Forget o le ballate Just Wait e la bellissima Looking For You. Brani sempre ricchi di melodie vincenti, sognanti e malinconiche, di linee vocali ispirate. Canzoni che toccano il cuore.

EMILIANO SAMMARCO 
80/100





YAEJI: WHAT WE DREW (REVIEW)

C’erano tante aspettative dietro questo debutto della producer americana, originaria della Sud Corea, Yaeji. Tutto questo hype era causato dai due ottimi precedenti ep che la nostra aveva pubblicato, offrendo un interessante mix fra deep house, trap e ambient. Per fortuna le nostre sperane sono rimaste intatte, infatti WHAT WE DREW è un disco delicato e ben bilanciato. Nel corso della tracklist possiamo notare un sacco di sfumature differenti e che si amalgamano fra di loro in maniera quasi miracolosa, rendendo l’ascolto fluido e piacevole. Elementi drum n’ bass si mescolano con l’hip hop, con l’ambient più delicato, con il jazz e così via. Ma la ciliegina sulla torta rimane la voce della nostra Yaeji, capace di passare dall’onirico all’ipnotico e di fondersi così bene con la parte strumentale quasi da non notare la sua presenza a momenti. WHAT WE DREW è un disco delicato e ben congeniato, capace di restituire emozioni a chiunque si voglia abbandonare a questo viaggio.

FRANCESCO SERMARINI
80/100






STEPHEN MALKMUS: TRADITIONAL TECHNIQUES (REVIEW)


Essendo io un gran culture di sonorità 90ies e un grande estimatore dei Stephen Malkmus, mi sono approcciato a questa nuova opera solista del nostro con un certo entusiasmo, ma anche con un certo timore. Il recente Groove Denied, dello scorso anno, mi aveva lasciato un po di amaro in bocca. Per carità, la voglia di sperimentare si nota anche in questo nuovo corso, ma a differenza di un anno fa Stephen si presenta a noi con un album piacevolissimo. Un album che non scimmiotta l'elettronica in modo banale com'era avvenuto per Groove Denied. Qui siamo al cospetto di undici brani quasi interamente in acustico. Si passa così dalla world music di ACC Kirtan e Shadowbanned, al folk d'autore di Cash Up e The Greatest Own in Legal History, alle ballate acustiche di Flowin' Robes, Brainwashed e Amberjack, che richiamano ovviamente (e ne siamo felici) i Pavement; così come la sbilenca e riuscitissima Xian Man. Insomma un buonissimo ritorno per Stephen, con la speranza che non cada più in album filler, ma che continui a regalarci ottimi dischi come questo o come l'ultimo con i Jicks di un paio di anni fa. Lunga vita a Re Malkmus!!!

EMILIANO SAMMARCO
78/100


STIAN WESTERHUS: REDUNDANCE (REVIEW)

Stian è un chitarrista dalla straordinaria verve sperimentale che prima di questo Redundance ci aveva deliziato con lavori puramente strumentali e avanguardisti per poi, con il precedente lavoro (Amputation), ancora ancorato ai precedenti, farsi forza di una visione più cantautorale che inglobava nel tutto anche la sua voce (invero Bellissima e intensa).
Redundance porta avanti il discorso da novello cantautore degli abissi umani, con convinzione, allontanandosi ancor di più dai primi lavori, perdendo forse in livello di sperimentazione, ma guadagnando in profondità e comunicabilità della proposta: elettronica minimale, chitarre avanguardiste, beat lenti e quasi mantrici e psichedelici, a volte quasi industrial, voce che rasenta il lirismo Buckleyiano.
Quasi un capolavoro, bellissimo, strano, storto, intenso!

LUCIO LEONARDI
85/100




RINGO DEATHSTARR: RINGO DEATHSTARR (REVIEW)

Da annoverare fra i paladini dello shoegaze contemporaneo, i Ringo Deathstarr sono tornati con un disco omonimo, a cinque anni di distanza dal precedente Pure Mood. Appena si preme play ci si trova immediatamente in mezzo alle influenze palesi di gruppi fondamentali come My Bloody Valentine, Ride o Lush. Il noise pop/shoegaze suonato dai nostri non ha nessuna intenzione di rivoluzionare il genere, infatti senza pretese i Ringo Deathstarr riescono a creare lavori di buona fattura e ottimi per chi ricerca quelle sonorità tipiche del rock alternativo anni ’90. Questo disco omonimo non fa eccezione, le produzioni sono buone, le canzoni riescono a spaziare in tutte le sfaccettature che il genere riesce ad offrire e si arriva a fine disco senza alcun senso di affaticamento. I Ringo Deathstarr non saranno un gruppo innovativo, ma in quello che fanno sono molto piacevoli.

FRANCESCO SERMARINI
70/100




YVES TUMOR: HEAVEN TO A TORTURED MIND (REVIEW)

Sean Bowie, in arte Yves Tumor, è una delle realtà più raffinate e poliedriche che si siano mai manifestate negli ultimi anni. Il suo crossover di generi fra soul, rnb, trip hop, psichedelia e funk. Heaven To A Tourter Mind è la conferma delle doti dell’artista, capace di rendere fruibile e stabile una proposta personale, complessa e piena di sfaccettature. La terza fatica di Yves Tumor riesce comunque ad essere scorrevole, nonostante le canzoni siano piene di arrangiamenti che si intrecciano fra di loro creando matasse indistricabili. Questa nuovo disco è la dimostrazione di come Yves Tumor sia diventato una figura solida all’interno della scena alternativa, ritagliandosi un posto di rilievo grazie alla sua proposta originale e personale.

FRANCESCO SERMARINI
75/100
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