FUNERAL DOOM |
Ho ascoltato per la prima volta Mirror Reaper dei Bell Witch mentre lavavo i piatti e questo probabilmente è l’incipit meno metal di tutte le recensioni metal della storia. Ma poco dopo i primi rintocchi ipnotici e gli arpeggi di chitarra, i lamenti monotoni intervallati da bagliori lontani che lasciavano presagire l’arrivo della tempesta, ho cominciato a vagare con la mente, a estraniarmi, a ricordare e immaginare. E più la musica marciava solenne e funesta verso luoghi inesplorati, più cresceva lo scarto tra ciò che il corpo stava facendo nel presente e ciò che la mente poteva permettersi di esplorare in uno spazio-tempo tra passato, futuro e ignoto.
Musica così lenta e contemplativa (o meglio, musica per una contemplazione intima e interiore) richiede una gesto quasi dimenticato nella nostra contemporaneità: la serenità di aspettare che qualsiasi forma artistica plasmi un'emozione definita ed eterna, capace di mettere radici nel cuore. Fermarsi di fronte a un'opera e attendere di essere investiti dall'estasi sono da considerarsi quasi atti rivoluzionari, soprattutto in tempi come questi, nei quali ogni input esterno viene filtrato, percepito, metabolizzato, giudicato e sostituito dal successivo stimolo in un lasso di tempo risicato. La musica, i film, l’arte, gli eventi e le tragedie della storia che ci scorrono davanti agli occhi: tutto diviene un flusso di immagini veloci, seriali, sostituibili, svuotate dal loro valore. Mirror Reaper distrugge questo schema, brutalizza e racchiude l’ascoltatore dentro una parentesi metafisica, lo ingloba in un’esperienza sensoriale quasi tangibile, obbligandolo ad abbandonare la strada di sempre e a intraprenderne una nuova per poco più di ottanta minuti. Come Dopesmoker degli Sleep, come Stoner Rock dei Bong: cattedrali di mestizia e riverberi, sospese in uno stato di coscienza dentro le quali si compiono la paralisi delle membra terrene e la trascendenza dello spirito. Sarebbe ovvio e banale descrivere un disco funeral doom come portatore di malessere, doloroso e opprimente. La musica dei Bell Witch, nel suo errare senza regole temporali e coordinate identitarie (un unico brano senza suddivisioni in capitoli o titoli come nei precedenti dischi, diviso per necessità tecnica in due dischi distinti dal dualismo ermetico “As above / So below”) diviene un fondale sul quale inscrivere altri noi stessi dentro noi stessi, finalmente circondati dall’assenza di mondo e di luce. Tutto in questo disco è volto al superamento della realtà e della logica, verso una dimensione parallela e perpendicolare, nella quale il suono accompagna per mano e intanto trapassa le viscere. La copertina dell’album è un’ulteriore espressione del manifesto mistico creato dal duo americano: attraverso lo specchio, come Alice nel paese delle Meraviglie, per affacciarsi verso l’abisso cosmico strappando il velo di Maya, oltre morte e rinascita, e contemplare la vera essenza del tutto. Perdersi all’interno dei vari movimenti e, per dirla alla maniera di David Lynch, vivere dentro il sogno. Dal malinconico preludio allo schianto contro il mastodontico orrore di chitarre distorte e della voce catacombale risvegliatasi dopo un sonno millenario, seguito dal lento diradarsi delle nubi verso sublimi elegie e partiture per chitarra, organo e luce alla fine del tempo. E infine un ritorno all’origine, con quei fragili arpeggi iniziali, per concludere il viaggio nello stesso punto da cui si era partiti. Probabilmente è stata la morte del precedente batterista, Adrian Guerra, ad innescare questo processo catartico incentrato sul superamento dei limiti sonori, fisici e del subconscio e la creazione di un aldilà melodico e distruttivo, interstellare e incomprensibile. Mirror Reaper va giudicato oltre l’aspetto prettamente musicale: nella sua fisionomia complessa e cangiante è una riflessione esistenziale su ciò che ci attende, un omaggio all’amico scomparso, un augurio di buon viaggio. Qualsiasi viaggio, anche mentre si lavano i piatti in una fredda sera di novembre, mentre l’universo là fuori urla nel silenzio infinito.
Musica così lenta e contemplativa (o meglio, musica per una contemplazione intima e interiore) richiede una gesto quasi dimenticato nella nostra contemporaneità: la serenità di aspettare che qualsiasi forma artistica plasmi un'emozione definita ed eterna, capace di mettere radici nel cuore. Fermarsi di fronte a un'opera e attendere di essere investiti dall'estasi sono da considerarsi quasi atti rivoluzionari, soprattutto in tempi come questi, nei quali ogni input esterno viene filtrato, percepito, metabolizzato, giudicato e sostituito dal successivo stimolo in un lasso di tempo risicato. La musica, i film, l’arte, gli eventi e le tragedie della storia che ci scorrono davanti agli occhi: tutto diviene un flusso di immagini veloci, seriali, sostituibili, svuotate dal loro valore. Mirror Reaper distrugge questo schema, brutalizza e racchiude l’ascoltatore dentro una parentesi metafisica, lo ingloba in un’esperienza sensoriale quasi tangibile, obbligandolo ad abbandonare la strada di sempre e a intraprenderne una nuova per poco più di ottanta minuti. Come Dopesmoker degli Sleep, come Stoner Rock dei Bong: cattedrali di mestizia e riverberi, sospese in uno stato di coscienza dentro le quali si compiono la paralisi delle membra terrene e la trascendenza dello spirito. Sarebbe ovvio e banale descrivere un disco funeral doom come portatore di malessere, doloroso e opprimente. La musica dei Bell Witch, nel suo errare senza regole temporali e coordinate identitarie (un unico brano senza suddivisioni in capitoli o titoli come nei precedenti dischi, diviso per necessità tecnica in due dischi distinti dal dualismo ermetico “As above / So below”) diviene un fondale sul quale inscrivere altri noi stessi dentro noi stessi, finalmente circondati dall’assenza di mondo e di luce. Tutto in questo disco è volto al superamento della realtà e della logica, verso una dimensione parallela e perpendicolare, nella quale il suono accompagna per mano e intanto trapassa le viscere. La copertina dell’album è un’ulteriore espressione del manifesto mistico creato dal duo americano: attraverso lo specchio, come Alice nel paese delle Meraviglie, per affacciarsi verso l’abisso cosmico strappando il velo di Maya, oltre morte e rinascita, e contemplare la vera essenza del tutto. Perdersi all’interno dei vari movimenti e, per dirla alla maniera di David Lynch, vivere dentro il sogno. Dal malinconico preludio allo schianto contro il mastodontico orrore di chitarre distorte e della voce catacombale risvegliatasi dopo un sonno millenario, seguito dal lento diradarsi delle nubi verso sublimi elegie e partiture per chitarra, organo e luce alla fine del tempo. E infine un ritorno all’origine, con quei fragili arpeggi iniziali, per concludere il viaggio nello stesso punto da cui si era partiti. Probabilmente è stata la morte del precedente batterista, Adrian Guerra, ad innescare questo processo catartico incentrato sul superamento dei limiti sonori, fisici e del subconscio e la creazione di un aldilà melodico e distruttivo, interstellare e incomprensibile. Mirror Reaper va giudicato oltre l’aspetto prettamente musicale: nella sua fisionomia complessa e cangiante è una riflessione esistenziale su ciò che ci attende, un omaggio all’amico scomparso, un augurio di buon viaggio. Qualsiasi viaggio, anche mentre si lavano i piatti in una fredda sera di novembre, mentre l’universo là fuori urla nel silenzio infinito.
TRACKLIST
1. Mirror Reaper
INFO
ANNO: 2017
LABEL: Profound Lore Records
LABEL: Profound Lore Records
WEB: Facebook
BELL WITCH: MIRROR REAPER