STONER |
Quindi suono fuzzoso, clima desertico (reso
magistralmente!), ritmi incalzanti da headbanging che all’occorrenza mutano per
lasciarla, invece, ciondolare la testa. Niente manierismo però: lo stile viene
ripreso, sì, nel senso più radicale del termine (e forse ne sentivamo anche la
mancanza), ma gli elementi di personalizzazione non mancano di certo: soli e
singole note dal gusto anni settanta, assolutamente ben riusciti nelle
sonorità, tanto che talvolta sembra di ascoltare un disco dei Sabbath (nominati
spesso come punto di riferimento, ma mai così azzeccato come in questo caso).
Ancora: momenti di contemplativa riflessione oppure di fluttuante psichedelia.
Tanto è quello che i DSW sono in grado di offrirci in 11
tracce! Un ritorno al full-length propriamente inteso, che si fa però bere come
accompagnamento dissetante nel sopracitato clima desertico.
Iniziamo senza indugio alcuno con la impetuosa Outurn un
azzeccatissimo pezzo stoner che regala nell’ultimo suo minuto delle note più
doommeggianti, rendendolo un pezzo da compilation.
Mi viene in mente la stessa scelta operata dai Kyuss ai tempi di Welcome to Skyvalley: sembrano voler far pensare all’ascoltatore “woah! Se il disco inizia con un pezzo così!”. E le aspettative vengono mantenute, credetemi. Segue lo stesso filone stoner/pogo Trippin The Drill, con i suoi ritmi inesorabilmente incalzanti.
Mi viene in mente la stessa scelta operata dai Kyuss ai tempi di Welcome to Skyvalley: sembrano voler far pensare all’ascoltatore “woah! Se il disco inizia con un pezzo così!”. E le aspettative vengono mantenute, credetemi. Segue lo stesso filone stoner/pogo Trippin The Drill, con i suoi ritmi inesorabilmente incalzanti.
Dicevamo, poi, delle tracce si stampo più riflessivo, ed
eccovele: abbiamo Space Cubeship che ci fa dondolare a schiena china e ad occhi chiusi,
persi nelle onde sonore; Lonely Coyote invece ci illude di essere di fronte ad una sorta
di ballad, ma non smette mai di farci scuotere la testa e di godere della
pentatonica desertica tanto preziosa per questo genere; Rise poi, con il suo
toccante intro ad assolo, il suo crescendo da tranquillo riff pulito ad
accattivante cavalcata fuzzettosa.
Come non nominare poi il riferimento anni ’70, con 666.1.333,
il cui inizio trovo divertentissimo: si sente aspirare una volta, due, tre
volte. Si sente poi tossire. E ridere. Tossire e ridere insieme: da cosa stava
tirando il nostro? Arriva poi Monkey Woman a coronare questo spirito retrò.
A tutte queste tipologie di tracce fa da cornice una voce
potente, sporcata al punto giusto – e pulita in quei, benché pochi, azzeccati
momenti – che sembra racchiudere in sé quelle che sono le caratteristiche
migliori di John Garcia e James Hetfield.
Strumentali le chicche psichedeliche dell’album, che
fanno da piacevole e sorprendente intramezzo, rappresentano l’altra faccia del
deserto, quando il sole cala e si porta via il caldo, lasciando una notte buia
e silente. Sono Dune, vortice di chorus e delay; Sherpa colonna sonora di un
“viaggio”; Wasteland, ovvero lo stato di una mente (s)fatta colta dalla tempesta di
sabbia: delay ravvicinati, quasi da battiti del cuore inarrestabili, crescendo
di distorsioni, come il crescere del panico. Ma la tempesta si placa presto,
lasciandoci fluttuare nel vuoto.
Una nota a parte va fatta sull’ultima traccia, Requiem, apparentemente
la più pensata del CD, dove gli elementi sopracitati si incontrano in 5 minuti
di rabbia triste, di stoner doom toccante nel suo riuscire ad estrapolare
catarticamente proprio quel groppo che avevamo dentro.
TRACKLIST
- Outurn
- Space Cubeship
- 666.1.333
- Dune
- Lonely Coyote
- Sherpa
- Monkey Woman
- Trippin The Drill
- Rise
- Wasteland
- Requiem
INFO
ANNO: 2012
LABEL: Acid Cosmonaut Records
WEB: Bandcamp
DSW - OUTURN