Prima di iniziare questo live report vorrei mettere in
chiaro quattro cose:
- Si è trattato del mio primo (e sicuramente non ultimo) Roadburn festival, le aspettative erano alte e la carica era papabile da due mesi prima dell’effettivo viaggio verso Eindhoven.
- Ho sempre visto il Roadburn, da fuori, come un vero e proprio paese dei balocchi per chiunque bazzicasse il tipo di generi proposti, e dopo i quattro giorni e mezzo passati a Tilburg posso smentire la mia aspettativa. È stato molto di più.
- Non voglio parlare dei concerti analizzandoli nel dettaglio delle setlist e parlando di ogni canzone. Sono del parere che se un live merita, lo fa per intero. Quindi non aspettatevi, a parte dovute menzioni, un’analisi pezzo per pezzo, ma dell’intero set.
- Per dovere di cronaca, devo ammettere che alcune sensazioni potrebbero essere state ampliate dall’uso di sostanze che in Italia sono considerate stupefacenti, ma mi raccomando: "La droga fa male, non drogatevi e restate a scuola” – Al Cisneros.
Mercoledì 10 Aprile
Il viaggio vero e proprio inizia la mattinata del 10 Aprile
all’aeroporto di Pisa, punto di incontro fissato da me e Luca, dove abbiamo
preso l’aereo per Eindhoven.
La giornata pre-festival procede abbastanza tranquillamente, montiamo le tende (incoscienti del freddo che ci aspetterà la notte), incontriamo amici italiani (di cui io personalmente faccio la conoscenza per la prima volta), ci facciamo un giro per Tilburg in maniera da memorizzare i posti da visitare e che ci vedranno spesso al loro interno, spesso per prendere un caffè et similia. Dopo aver sostenuto che questo sarebbe stato il mio primo festival europeo vero e proprio, mi è rimasta impressa una risposta: “Hai scelto il miglior posto possibile da cui cominciare”.
La serata di apertura ammetto di non essermela goduta al 100%, complici la stanchezza e il sonno dovuti al viaggio e alla levataccia della mattina. Riesco ad ascoltare solo parte del set dei Great Grief, gruppo islandese i cui membri fanno anche parte dei più famosi Une Misère, e ne rimango comunque piacevolmente colpito. Hardcore moderno venato di melodico, ma non scadendo comunque nella pacchianità e nella scontatezza della stragrande maggioranza di gruppi del genere.
Detto ciò, si va a dormire e ad affrontare il freddo notturno abbastanza inaspettato.
La giornata pre-festival procede abbastanza tranquillamente, montiamo le tende (incoscienti del freddo che ci aspetterà la notte), incontriamo amici italiani (di cui io personalmente faccio la conoscenza per la prima volta), ci facciamo un giro per Tilburg in maniera da memorizzare i posti da visitare e che ci vedranno spesso al loro interno, spesso per prendere un caffè et similia. Dopo aver sostenuto che questo sarebbe stato il mio primo festival europeo vero e proprio, mi è rimasta impressa una risposta: “Hai scelto il miglior posto possibile da cui cominciare”.
La serata di apertura ammetto di non essermela goduta al 100%, complici la stanchezza e il sonno dovuti al viaggio e alla levataccia della mattina. Riesco ad ascoltare solo parte del set dei Great Grief, gruppo islandese i cui membri fanno anche parte dei più famosi Une Misère, e ne rimango comunque piacevolmente colpito. Hardcore moderno venato di melodico, ma non scadendo comunque nella pacchianità e nella scontatezza della stragrande maggioranza di gruppi del genere.
Detto ciò, si va a dormire e ad affrontare il freddo notturno abbastanza inaspettato.
Giovedì 11 Aprile
Dopo aver fatto colazione agli stand presenti nel Campsite,
ci si fionda subito nella zona festival dove i concerti hanno inizio nel primo
pomeriggio, e si inizia subito nell’Hall
of Fame, il palco più piccolo ed intimo dell’intero festival. Ciò prevede
la prima divisione del gruppo, in quanto ci sono talmente tanti gruppi di
grande spessore che il mal di testa per la scelta ne fa da padrone.
Roadburn 2019 |
Io e la mia ragazza iniziamo dai Bismuth,
duo funeral doom inglese che da poco ha visto l’uscita del proprio full length The Slow Dying of the Great Barrier Reef,
disco molto apprezzato dal sottoscritto. Subito l’atmosfera si fa cupa. Il
gruppo, formato solo da basso e batteria, colpisce subito l’audience con un
sound granitico e gigantesco, che non fa prigionieri. Le dolci clean vocals e
il potente growl della cantante creano un incredibile dualismo che ipnotizza i
presenti dall’inizio alla fine del set, durato circa 40 minuti. Sarà stato il
fomento e l’atmosfera del Roadburn, ma il duo inglese è sicuramente uno dei
molti highlights del festival. Insomma, la maniera ideale per iniziare.
Bismuth |
Ancora storditi dall’impatto dei Bismuth, ci dirigiamo verso la Green Room, che dopo mezz’ora vede
protagonista Dehn Sora e il primo dei suoi progetti presenti nella line-up, Treha Sektori. Ammetto di esserci
andato per pura curiosità, non avendo ascoltato molto prima, e ne sono uscito
piacevolmente sorpreso. Si tratta di un live dark ambient, arricchito da delle
visuals prodotte e spesso recitate dallo stesso Sora, che si sposano
perfettamente con la proposta musicale. I bassi colpiscono l’ascoltatore
direttamente nello stomaco, inizia a vibrare tutto e sembra di essersi spostati
in un altro mondo, complici il silenzio e la meditazione vera e propria che
accompagnano l’intero set.
Treha Sektori |
Non si esce da questo stato, e un po’ tristi per esserci persi il primo set dei
Thou, inizia a martoriarci le orecchie (in senso positivo) Kristin Hayter, in
arte Lingua Ignota. Il suo disco All Bitches Die, risalente al 2017, ha
accompagnato parecchi dei miei pomeriggi e notti insonni con la sua
schizofrenia e il suo vero e proprio assalto sonoro. Come al solito si
posiziona al centro dell’audience, con il pubblico che si mette a cerchio e
assiste alla sua performance, perché si parla di una vera e propria
performance. Da subito ci si rende conto di non star guardando un normale live
noise, ma molto di più. I momenti dolci si accompagnano ad urla che squarciano
completamente le orecchie dei testimoni. Si tratta di un’artista capace di
passare da un canto lirico vero e proprio ad uno scream che attacca
l’ascoltatore e ne ritorce le budella. Si passa da una cover della celebre Jolene di Dolly Parton, ad
autoinfliggersi colpi di quelle che sono vere e proprie lampade che Lingua
Ignota porta sempre avvolte al proprio collo o ai propri arti. Per utilizzare
una sola parola, andrei verso intensa.
Si è trattata sicuramente, per quanto mi riguarda, della proposta proprio più
intensa dell’intero festival.
Lingua Ignota |
Dopo aver raccolto i cocci di ciò che un tempo era la nostra coscienza, ci
spostiamo verso il De Koepelhal. Si
tratta del secondo palco per grandezza, dove assistiamo al live di Emma Ruth Rundle, che presenta il suo On Dark Horses, uscito lo scorso anno.
C’è poco da dire, il live è stato ben curato e interessante, i pezzi hanno
colpito l’audience e la sua voce iper personale ha decisamente fatto centro. Si
è trattato di un bel concerto sicuramente, ma le orecchie ancora gravitavano
verso la Green Room, dove abbiamo visto Lingua Ignota.
Emma Ruth Rundle |
Ci spostiamo poco prima della fine del concerto verso la Hall of Fame, dove
suoneranno a breve i Crowhurst,
progetto di Jay Gambit che presenta il nuovo disco, III. Bene, probabilmente questa è l’unica nota negativa dell’intero
festival. Complici il fatto che erano state perse delle pedaliere, complici
l’ansia e un po’ di riverenza di fronte al pubblico del Roadburn, si è trattata
a mio modesto parere dell’esibizione meno convincente tra quelle che ho visto
nel weekend olandese. Attacchi spesso sbagliati, suoni un po’ ni e concerto iniziato tardi, salvati
solo in parte dalla comicità e dal non prendersi sul serio del frontman Jay
Gambit. I Crowhurst (il cui live successivo, in collaborazione con i Gnaw Their
Tongues, pare essere stato molto più incisivo e coinvolgente di questo) si
aggiudicano il titolo di “Non sono
musicisti professionisti, sono presi dalla strada”.
Dopo il concerto decidiamo di prenderci una pausa e di mangiare qualcosa, prima
di essere colpiti dall’ultimo live della giornata. La scelta è onestamente
parecchio difficile, bisogna vedere solo uno tra i Mono che suonano con l’orchestra il loro capolavoro (a mio parere) Hymn to the Immortal Wind, e la
poliedrica Margaret Chardiet, in arte Pharmakon.
Ci avevamo già pensato in precedenza, come per molte delle sovrapposizioni
presenti sul bill, e abbiamo deciso di optare a favore dell’harsh noise (tanto
già che c’eravamo, quella giornata era dedicata principalmente a farci male) a
discapito della dolcezza dei giapponesi Mono.
Bene, pronti via, ci posizioniamo di fronte al palco e davanti a noi si
presenta una ragazza bionda dall’aspetto innocuo, che appena attacca inizia a
farci chiedere cosa abbiamo fatto di male per vivere. Il progetto Pharmakon ci ha distrutti internamente
dall’inizio alla fine, la presenza scenica (cosa non scontata per un live del
genere) è stata enorme, e i volumi erano esagerati (nel senso buono). Ci ha
spaesato da subito, non sapevamo più dove fossimo e ha colpito tutto ciò che
c’era da colpire. Non mi dilungo troppo su un live harsh noise del genere, che
è più da vivere che da raccontare. Non è stato un normale concerto, ma una vera
e propria esperienza. Distrutti internamente e senza parole, decidiamo
mestamente di andare a dormire.
Pharmakon |
Venerdì 12 Aprile
Ancora carichi per il primo giorno, ci si sveglia moderatamente presto e come al
solito si va nella zona festival. La nostra giornata concertistica inizierà
alle 14.40, quindi facciamo con calma e pranziamo. Ho già parlato dell’atmosfera,
ma oggi, dato l’aver sorpassato il momento di stupore della prima volta, ci
godiamo a pieno tutto il mondo Roadburn. Diamo un’occhiata alle opere d’arte di
Emma Ruth Rundle e di Marissa Nadler, per poi affacciarci nella sala della Full
Bleed Exhibition, dove altri artisti di calibro internazionale (sempre legati
al genere) esibiscono i propri lavori, tra i quali troviamo Jacob Bannon, Richey
Beckett e Thomas Hopper.
Carichi per l’inizio, ci dirigiamo verso il De
Koepelhal e ci mettiamo in prima fila per l’esibizione dei Throane, che dicono sarà qualcosa di
molto diverso dalla norma. Infatti da subito ci colpisce un grande pugnale
posizionato al centro di un cerchio all’interno del quale suonerà la band.
Pronti-via, siamo testimoni di un live carico e psichedelico grazie al Black
Metal molto variegato del gruppo francese, capitanato dal cantante e visual
artist Dehn Sora, che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo nel
giorno precedente con il suo progetto Treha Sektori. Dall’inizio alla fine
siamo preda di un vero e proprio muro di suono e veniamo colpiti e ammaliati
dalle luci e dai visuals proiettati dietro il palco, che ci guidano attraverso
l’ennesima esperienza a cui assistiamo in questo festival.
Throane |
Tuttavia, poco prima
della fine del concerto tocca spostarsi nel Main
Stage per la performance più attesa della giornata, ovvero la
collaborazione tra i Triptykon e la Metropole Orkest, parte dell’Act The Burning Darkness, curata da Thomas
Lindberg. Suoneranno Requiem, una
versa e propria opera creata dal frontmam Tom G. Warrior a partire dalla
prima parte, Rex Irae, tratta dal celebre disco dei Celtic Frost “Into the Pandemonium”. Partiamo dal
presupposto che non si è trattato assolutamente di ciò che un normale fan dei
Triptykon o dei Celtic Frost si aspettava: pochissime distorsioni, nessun riff
sfascia crani, ma una vera e propria opera a cui da padrone hanno fatto l’orchestra
vincitrice di un Grammy Award, la voce di Claudia-Maria Mokri già presente in
alcuni dischi dei Celtic Frost e infine Tom G. Warrior, vero e proprio
mattatore del pubblico. Le tre fasi si sono alternate una dopo l’altra e hanno
catturato l’intera audience che è rimasta di stucco davanti ad un progetto così
ambizioso e riuscito (almeno in parte), che farà parte di un dvd. Per l’ennesima
volta lo svizzero Tom G. Warrior si è dimostrato un artista eclettico ed in
grado di stupire, anche lasciando poco spazio al metal vero e proprio e dando
più importanza alla trama musicale da lui composta e accompagnata egregiamente
dai suoi compagni di band e dai membri dell’orchestra.
Triptykon + Metropole Orkest |
Tempo di una rinfrescata ed eccoci di nuovo al Main Stage, per assistere alla
performance di Anna Von Hausswolff,
che abbiamo deciso di preferire a quella dei Conjurer (a posteriori facendo un’ottima
scelta, visto che l’Hall of Fame dove si sono esibiti gli inglesi è risultata
strapiena e inaccessibile). Allora, qui c’è moltissimo da dire: avevo apprezzato
l’artista svedese ma solo in parte dai suoi dischi, specie dall’ultimo Dead Magic, che ritengo un vero e
proprio gioiello; non mi aspettavo tantissimo, ma un concerto alla Emma Ruth
Rundle molto apprezzabile e godibile, nulla più. Ed è qui che sbagliavo, in
quanto la svedese è stata la più grande sorpresa del festival, ed è stato uno
dei set migliori a cui abbia assistito nella mia vita. Il report potrebbe
finire qui, ma per dovere di cronaca vado avanti. La setlist è iniziata in
maniera molto soft, ha portato l’ascoltatore in un mondo da lei totalmente
governato e ci ha sbattuti a destra e sinistra sua totale volontà. Suoni a dir
poco incredibili, una presenza on stage gigantesca, varietà e puro talento a
favore della musica che ha colpito sicuramente tutti i testimoni del concerto,
grazie alla sua dinamica che andava dal suono gentile della sua voce a
suoni giganteschi e pesantissimi. Se non l’apprezzate in studio, datele una
chance in live. Si tratta di una cosa totalmente differente e inaspettata, che
vi lascerà sicuramente di stucco. Non ci sono molte parole per descrivere
questo set, se non chapeau, ho
assistito sicuramente ad uno dei concerti in top 3 dell’intero festival.
Anna Von Hausswolff |
C’era sicuramente bisogno di tempo per riprendersi dopo una cosa del genere,
così ci siamo rifocillati e riposati. Consci del fatto che il Patronaat, su cui si esibiranno i Mono
per uno special set, è un territorio che rimarrà inesplorato per l’intero
festival a causa della fila incredibile che si formava tra i set, ci dirigiamo
verso il De Koepelhal per assistere alla collaborazione di Thou & Emma Ruth Rundle. Si tratta del primo set dei Thou, da noi guardato, che ci colpirà solo in parte. Si tratta di un progetto nato
esclusivamente per il festival, rodato da qualche live su suolo americano, e
che produrrà un disco vero e proprio in uscita. Parlando del concerto vero e
proprio, si può sicuramente dire che il progetto è riuscito: la voce di Emma
Ruth Rundle accompagna benissimo e a volte si fa protagonista del suono
granitico degli americani Thou, che creano un vero e proprio muro di suono.
Ovviamente tutti i pezzi sono inediti, essendo composti per l’occasione, ma il
pubblico è comunque piacevolmente colpito e trasportato dalle mani e ugole dei
membri del gruppo presenti sul palco. L’unica pecca è forse stata una dinamica
stabile per tutto il set, che non ha creato troppa varietà e alla lunga ha un
pochino stancato. Tuttavia, a parte questa precisazione, un altro set
apprezzabile e divertente, tra i tanti del festival.
Thou + Emma Ruth Rundle |
Oramai stanchi morti, ci aspetta solo un live per chiudere la giornata.
Dobbiamo rinunciare dolorosamente ai Messa, che tenevo molto a rivedere ma che
suoneranno nel Patronaat, palco inaccessibile per i motivi sopra scritti. Detto
ciò, ci andiamo a sedere nel Main Stage per assistere al live degli At The Gates, che hanno un posto speciale
nel mio cuore: Slaughter of the Soul
è stato il primo disco metal che abbia mai ascoltato e apprezzato oramai quasi
quindici anni fa, quindi debbo a loro il mio ingresso nel mondo di questo
macrogenere. Le gambe però non collaborano a causa dei molteplici spostamenti e
di altre motivazioni di cui ho parlato nell’incipit, quindi sarà il primo set
che vedrò e ascolterò seduto e non sotto palco. Tra l’altro è la prima volta
che ho la possibilità di assistere ad un loro concerto, e tutto fomentato alla
fine decido di alzarmi anche se non mi avvicinerò al pit. Il live è da band
rodata dagli anni, riff schiacciasassi si alternano ad altri riff
schiacciasassi e ad alcune collaborazioni sempre in riferimento al concept The Burning Darkness. Vedremo altri
artisti susseguirsi sul palco come Anna Von Hausswolff, Matt Pike, Rob Miller e
Jo Quail. Ma è inutile, nonostante il pubblico in visibilio alla presenza di
uno dei frontman degli Sleep, che
suoneranno il giorno dopo, il top si è venuto a creare quando son stati suonati
i grandi classici Slaughter of the Soul, Blinded
By Fear e Suicide Nation. Son
tornato undicenne per un momento e ho ricordato lo stupore e l’attrazione quasi
morbosa per quel video girato all’oscurità e con immagini poco rassicuranti
come quello di Blinded By Fear. Emozioni a parte, grande concerto. Forse quello
un po’ più fuori luogo di questa edizione del festival, ma d’altra parte l’eterogeneità
della proposta musicale è sicuramente uno dei grandi punti di forza del
Roadburn.
Tristi per esserci persi Messa e Bosse-De-Nage, torniamo alla tenda per
riposarci e riprenderci, visto che i successivi due giorni saranno quelli con
più aspettative.
At The Gates |
Sabato 13 Aprile
Carichi a palla per questa giornata da giorni, si raggiunge
il Main Stage alle 15 per assistere al set dei Wolvennest, gruppo doom abbastanza diverso dal solito che ha
rilasciato nel 2018 Void, uno dei dischi
che più mi hanno colpito nell’annata scorsa. Da subito è facile capire che non
si tratterà di un set come un altro, ma dal sapore quasi occult, vista la scenografia preparata dalla band. Siamo accolti da
un vero e proprio altare al centro dello stage dietro il quale si posizionerà
la cantante principale, e pronti via si parte proprio con Silure, opening track del disco poco fa menzionato. Grandi suoni,
grande presenza scenica (sembra quasi che sia in atto un’opera teatrale, visti
i veri e propri costumi dei membri della band), ma che alla lunga, purtroppo,
hanno stancato. Forse un intero set è un po’ troppo, anche se alcune idee son
state incisive, tra cui il ping-pong tra i due cantanti, una voce femminile quasi
sciamanica accompagnata dal growl e dalla voce profonda di quella maschile, che
farà sporadicamente l’apparizione sul palco. Tutto sommato convincenti, ma come
già detto in precedenza un po’ stancanti viste le dinamiche abbastanza statiche
per tutta la durata del set, che probabilmente è durato un po’ troppo vista la
sua ora e mezza.
Wolvennest |
Però, sullo stesso palco, ora tocca ad uno dei live più attesi dal
sottoscritto: i Sumac. Aaron Turner
è qui al Roadburn con tre suoi progetti, a due dei quali sarò testimone: questo
e gli Old Man Gloom, che suoneranno
il giorno successivo.
Inutile dire che tutta l’audience è stata massacrata da dei suoni giganteschi
ed incredibili, al limite del noise. Ma c’era da aspettarselo, visto il
principio su cui è nato questo progetto e i membri, che, oltre Turner, fanno
parte di Russian Circles e Baptists. Detto fatto, i Sumac sono un
vero e proprio tsunami, che grazie all’impianto del Main Stage riescono a
sprigionare la loro vera e propria essenza. Son stato quasi tentato dal mettermi
dei tappi per le orecchie, per poi mandare tutto a quel paese e godermi lo
sprigionamento dei watt e delle valvole. Il set è stato incredibilmente
variegato e ne hanno fatto parte improvvisazioni e pezzi tratti dall’ultimo,
incredibile, disco Love in Shadow. A
impreziosirne la performance, poi, è salito sul palco Caspar Brotzmann, che con
il suo basso si è immerso totalmente nel sound noise dei Sumac e ha partecipato
al massacro generale. Grandissimo concerto su cui c’erano tante aspettative,
superate di gran lunga.
Sumac |
Terminati i Sumac, ci prendiamo la proverbiale pausa-cena prima di assistere al
concerto successivo, quello dei Cave In.
C’è tanto interesse in sala per scoprire come sarà il set data la morte prematura
del bassista e cantante Caleb Scofield,
venuto a mancare circa un anno fa. Al suo posto ci sarà Nate Newton, già bassista dei Converge
e chitarrista degli Old Man Gloom.
Tra il boato generale il gruppo si presenta sul Main Stage e inizia a macinare
riff su riff degli storici dischi prodotti, senza mai mancare di rivolgere i
propri strumenti al cielo in evidente tributo per lo scomparso Caleb, che è
anche presente nelle visual dietro il palco. Inoltre, viene presentato il
singolo del nuovo disco degli americani, Shake My Blood, che uscirà quest’anno.
Nonostante il growl precedente fosse un’altra cosa, Nate Newton si sbatte e
porta a casa un ottimo risultato, anche aiutato da Stephen Brodsky alla voce
pulita. Anche se i Cave In non sono mai stati tra i miei gruppi preferiti, il
set è coinvolgente e unisce tutti i presenti in ricordo di Caleb Scofield.
Cave In |
Nonostante la calca sotto il palco prima di un concerto non sia una prerogativa
del Roadburn, anzi, si decide di fiondarsi sotto lo stage per godersi il gruppo
che più di tutti è atteso in questo festival: gli Sleep. Ricordiamo che i set saranno due, oggi tocca alla
riproduzione nella sua totalità di Sleep’s
Holy Mountain, che è nelle orecchie di chiunque si proclami fan del doom e
dello stoner. Dopo aver montato alla velocità della luce una backline
gigantesca con in sottofondo i suoni dell’atterraggio lunare, formata da otto
casse per chitarra e altrettante per basso, in perfetto orario salgono sul
palco gli ormai iconici Matt Pike e Al Cisneros, accompagnati dall’ormai
ufficiale batterista Jason Roeder,
già membro dei Neurosis. È quando Dragonaut attacca che il pubblico
esplode, per godersi quello che più che un disco è un vero e proprio manifesto.
A parte qualche acciacco e qualche problemino di amplificatori, il gruppo è in
palla e propone un grande concerto, votato alla maestosità del suono che
colpisce direttamente nello stomaco e che ipnotizza tutta l’audience (N.d.R.
sono quasi sicuro di aver sentito odore di Marijuana, la droga del diavolo,
durante tutto il set. Che vergogna.). Si susseguono i classici The Druid, Evil Gypsy/Solomon’s Theme, Holy
Mountain e insomma tutto il disco. Persino lo stacco di Some Grass, che vede Matt Pike da solo
sul palco con una chitarra acustica che evidentemente si chiede come mai non ci
sia attaccato un fuzz e un po’ imbarazzato improvvisa, nonostante gli si legga
negli occhi che non vede l’ora di passare alle cose serie. Gli Sleep si fermano un attimo, e l’addetto ai visual fa
un errore: manda dietro al palco l’immagine gigante di Dopesmoker in anticipo e togliendola subito dopo, mandando il
pubblico direttamente nell’iperspazio. Come volevasi dimostrare, i nostri
salgono sul palco accompagnati da una gigantografia dell’iconico artwork di
Dopesmoker, e attaccano. Non credo di aver sentito durante tutto il festival un
boato più grande. I suoni sono ancora più incredibili del disco, colpiscono
direttamente il cervello e lo mandano in pappa. Tutta l’audience è
completamente ipnotizzata dagli americani, che suonano tutta la prima mezz’ora
del mastodontico capolavoro del 2003 (va bene, Jerusalem è del ’99, ma non
spendiamoci troppo in dettagli del genere), per poi attaccare con The Clarity, singolo del 2014. Finito
tutto, un evidentemente stanco Al Cisneros si rivolge al pubblico con un chiaro
“See you tomorrow”. La gente è ancora
provata pesantemente da ciò a cui ha appena assistito, e mestamente e molto,
moooolto lentamente si appresta ad uscire dal Main Stage per andare a
riprendersi da qualche parte. Così facciamo noi, che andiamo a dormire storditi
e più che soddisfatti.
Sleep |
Domenica 14 Aprile
Ed ecco qui, tocca al gran finale. Ultimo giorno del
festival, prima di tornare a casa e pensare a ciò a cui si è appena vissuto.
Storicamente denominato Afterburner, dovrebbe
essere il giorno di scarico e teoricamente più “leggero”, anche se da qualche
anno non è più così. Anzi, probabilmente per il sottoscritto è stata la
giornata più attesa e pesante, e data la presenza di alcuni gruppi, non poteva
essere altrimenti.
Si inizia prestissimo, alle 13.50, con gli Have
a Nice Life che proporranno il loro capolavoro, l’iconico Deathconsciousness nella sua totalità.
La nota particolare è dovuta al produttore dei visuals, che è lì sul palco con
loro e li proietterà e farà in diretta con il concerto, senza alcuna
preparazione precedente. A parte questo, la parola chiave è ancora una volta intensità: il duo americano è
accompagnato da altri tre musicisti, rispettivamente altra chitarra, basso e
batteria, e non si farà pregare per ricordare come il progetto sia nato più per
sfogo che per altro, visto che “No one
will ever listen to this”. Il cantante è presissimo e sente tutta la
pesantezza delle parole che ha scritto più di dieci anni fa, e lo si vede. È provato
e a volte gli si spezza la voce, ma solo e unicamente per l’emozione.
Sentimento che trasmette al pubblico, che si “gode” uno show pesante ed intenso,
che tocca tutte le corde dell’animo umano. Anche sta volta l’equazione
grandissimo disco – grandissimo concerto è rispettata.
Have a Nice Life |
Praticamente passeremo tutta la giornata al Main Stage, e quasi a farlo a posta
adesso tocca ad un altro gruppo che lo scorso anno ha diviso l’audience ma si è
presa una fetta di celebrità a mio parere meritata. Sono i Daughters, che propongono praticamente tutto il nuovo ed eclettico
disco You Won’t Get What You Want.
Attitudine hardcore a mille, il cantante Alexis
Marshall si prende la scena da subito. Non sembra un palco a cui gli
americani siano abituati, ma lo rendono tale. Stage-diving, contatto con il
pubblico e volata sul balcone del bar sono solo alcuni degli ingredienti che
renderanno memorabile questo show, anche a causa del fatto che nell’edizione di
quest’anno non sono cose che si sono viste spesso. Hardcore, Industrial e Dark
Wave: la musica e le parole disturbanti prodotte dai Daughters colpiscono tutta
l’audience sin da subito e attaccano direttamente il cervello degli
ascoltatori, dando vita ad uno show sicuramente da ricordare.
Daughters |
Tempo di prendersi un caffè e riprendersi e si riattacca subito, sta volta
tocca ai Thou, che da soli si
presentano sul Main Stage un po’ intimoriti, ma è solo l’impressione iniziale.
Subito prendono confidenza, e attaccano con il loro ultimo set dedicato alla Magus era, i vari dischi prodotti nell’ultimo
anno. Ricordate il set un po’ stancante con Emma Ruth Rundle di cui vi ho
parlato prima? Bene, dimenticatelo. Adesso si fa sul serio, e i Thou sprigionano pura potenza, dovuta
anche al fatto che si trovano nell’ambiente musicale dove si trovano più a loro
agio. I suoni mastodontici accompagnati da uno scream glaciale colpiscono l’ascoltatore
e lo prendono a botte per tutta la durata del set. Si tratta di vere e proprie
manate in faccia, e tutto il pubblico ne vuole sempre di più. Non c’è un
momento di pausa, il gruppo ha oramai preso confidenza con il palco e tira
fuori riff su riff macinando tutto ciò che trovano di fronte, anche
accompagnati da un impianto molto grande che ne amplifica le qualità. I Thou
hanno probabilmente raccolto meno di ciò che si meritano nella propria
carriera, ma questa posizione sul Main Stage sembra più adeguata che mai. Show
incredibile, assolutamente nulla di negativo da dire.
Thou |
Dopo una breve capatina agli stand del cibo, facciamo un rapido salto dagli Ulcerate nella Green Room, vedendo
comunque troppo poco per esprimere un’opinione, visto che a breve tocca ad un
altro grande gruppo ancora nel Main Stage, gli Old Man Gloom. Beh che dire, la questione della morte di Caleb
Scofield, membro anche del gruppo Sludge, tocca anche qui apici importanti. Tuttavia
ora tocca alla musica parlare, e il supergruppo attacca gli strumenti. Si è
trattata di un’esperienza shockante: gli Old Man Gloom hanno fatto a mio parere
il più grande show del festival. Suoni granitici, forma strepitosa e tiro
incredibile. Non voglio parlare nello specifico della setlist, non hanno mai
smesso di stupire e dare craniate al pubblico. Mai un calo, mai un piccolo
spiraglio di luce, solo botte su botte su botte. Aaron Turner, già sentito il
giorno scorso con i Sumac, supera sé stesso e produce una performance vocale e
strumentale totalmente fuori dalla comprensione umana, dimostrandosi l’alieno
che è. Accompagnato egregiamente da Nate Newton, Stephen Brodsky al posto di
Caleb Scofield e Santos Montano alla batteria (vero mattatore del gruppo,
guardare la pagina Facebook e Instagram per la testimonianza), il concerto
prodotto è qualcosa di extraterrestre. E visto che non ci vogliamo far mancare
nulla, ad un certo punto Stephen Brodsky si avvicina al microfono e pronuncia
tre parole: “This is Zozobra”. Aaron
Turner passa solo alla voce e sale sul palco Adam McGrath (Cave In, Zozobra), e il concerto diventa
improvvisamente degli Zozobra, che a
loro volta massacrano tutti. Per non farsi mancare la proverbiale ciliegina sulla
torta, vengono raggiunti da Jacob Bannon (Converge,
Wear Your Wounds) per l’ennesima collaborazione sempre sui loro pezzi. Il
pubblico è in estasi. Come già detto, a mio parere il concerto più incredibile
dell’intero festival.
Old Man Gloom |
Zozobra + Jacob Bannon |
Ma non è mica finita, ora tocca al gran finale: il secondo set degli Sleep. Non è facile eguagliare o
sorpassare il concerto appena finito degli Old Man Gloom, ma il trio americano
mette a dura prova la scelta del migliore. Il secondo set è incentrato
principalmente su The Sciences, disco
uscito a sorpresa lo scorso anno proprio durante il Roadburn. Proverbiale
sottofondo, come la scorsa serata, dell’atterraggio sulla luna, ed eccoci che i
nostri salgono sul palco. Dopo l’intro The
Sciences, a sorpresa parte Leagues Beneath, altro singolo prodotto lo
scorso anno. I riff si susseguono uno dopo l’altro, i tre si vede che sono
molto più in forma di ieri e lo fanno sentire anche al pubblico, che li segue
come dei messia. Il disco viene suonato tutto, i suoni possibilmente sono
ancora più grossi e definiti dello scorso set e ci si rende conto di come mai siano dei veri e propri santoni seguiti da tutti gli appassionati dello
stoner e del doom. Finito The Sciences, c’è ancora spazio per delle manate ed è
qui che sorprendono tutti: ripropongono Holy Mountain e Dragonaut, dando doppia
dose ad un pubblico che la richiedeva a là Oliver Twist. C’è poco da dire sugli
Sleep che non si sia già detto: se non li avete mai visti, andateli a vedere, magari evitando situazioni dove l'impianto non è il top. Matt Pike for President.
Sleep |
Stanchi e provati, e consci che il giorno dopo ci aspetterà uno sbattone non indifferente tra rimontaggio di tende e bagagli, ci dirigiamo mestamente verso il camping, consci di aver assistito a qualcosa di irripetibile.
Ed è qui che si conclude questo lunghissimo report, se siete arrivati fino alla fine vi faccio i miei complimenti vivissimi. All’anno prossimo!